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SCUOLA-FAMIGLIA

Quando cambia la scuola

Alcune riflessioni di Angela Nava, Presidente Nazionale Coordinamento Genitori Democratici

di Angela Nava
28 Gennaio 2005

La riforma Moratti riconosce alla Famiglia, almeno nelle intenzioni, un ruolo centrale: maggiore personalizzazione del percorso di studio dello studente e quindi maggiore partecipazione delle famiglie nelle sue scelte; come giudica questo tipo di impostazione e gli strumenti che operativamente dovrebbero realizzarla?

LaDia Indire legge 53 enfatizza in numerosi passaggi il ruolo delle famiglie, dei genitori, usando in modo scambievole termini come cooperazione, partenariato, partecipazione in relazione al rapporto scuola-famiglia.
Ribadisce insomma quanto già la Costituzione italiana garantiva e quanto viene ripreso dalla Carta di Nizza e dalla Costituzione europea. Questa reiterata sottolineatura fa pensare a qualcosa di più di una pura petizione di principio. Si evince , infatti,  uno spostamento dell’asse culturale: da scuola che offriva la stessa formazione a tutti a scuola che modella la sua offerta sul singolo. Perché una  riforma “culturale” di questa portata sia realtà diffusa sono necessari senza dubbio tempi lunghi , ma insieme risorse da distribuire sia sul fronte della formazione degli insegnanti, spesso più capaci di informare che di condividere\negoziare con le famiglie un percorso educativo, sia su quello della formazione dei genitori per non correre il rischio di richieste individualistiche e poco rispettose dei reali bisogni del bambino, sia sulla scuola nel suo complesso perché possa davvero arricchire la sua offerta formativa. Si rischia altrimenti di ingenerare aspettative che andranno disattese o che al massimo consentiranno alle famiglie di scegliere solo tra diversi modelli orario, quelli più funzionali ai bisogni dell’adulto.

Un altro punto qualificante della riforma sta nel tentativo di avvicinare mondo della scuola e mondo del lavoro, riconoscendo l’opportunità per lo studente di alternare ore di formazione in aula a ore di vera e propria esperienza lavorativa in azienda.
Può parlarci di come le famiglie percepiscono questi due mondi, spesso descritti come lontani fra loro, che accompagnano lo studente lungo il suo percorso di crescita e maturazione?

Per molti anni abbiamo attribuito alla scuola una funzione “emancipatrice”: la preparazione scolastica era tout court passaporto per l’ingresso nel mondo del lavoro; il titolo di studio la legittimazione all’aspettativa di un lavoro ad esso adeguato. Un prima ed un poi, quindi: prima la scuola, poi il lavoro. Da molti anni i cambiamenti complessi intervenuti nel lavoro, la inutilità di specializzazioni che si bruciavano nel giro di pochi anni, hanno modificato le attese e gli atteggiamenti generali: non però la fiducia complessiva che la scuola potesse essere il corretto trampolino di lancio. Su questa fiducia si possono costruire, ma si sono già costruiti negli anni, metodologie didattiche in nome dell’alternanza, che trovano il “gradimento” dei genitori anche in un complessivo processo di responsabilizzazione dei nostri ragazzi, spesso trattenuti da noi adulti in un'eterna adolescenza.

Riguardo l’alternanza Scuola/Lavoro e i vari progetti già realizzati da singole Scuole, Camere di Commercio e Aziende sembra di trovarsi di fronte a questioni di difficile soluzione, per cui ad esempio se lo studente acquisisce capacità pratiche e relazionali in azienda finisce per farlo a scapito della sua preparazione di base e personale a scuola.
Può dare una sua valutazione in proposito?

Anche in questo caso il problema è strutturalmente culturale e già il precedente dicastero ha avuto il suo bel da fare nell’introdurre l’idea, che trovo significativa, dei crDia Indireediti e della valutazione delle competenze acquisite anche nell’educazione informale. La scuola ha per troppo tempo maneggiato e valutato solo le competenze squisitamente scolastiche, incapace di valorizzare e di classificare una serie di altre abilità. Quante volte abbiamo visto contraddetto il giudizio scolastico su un allievo dalla sua buona riuscita nella vita lavorativa? Il discorso poi vale anche per coloro che nella scuola o comunque nel circuito formativo rientrano: essi sono portatori di competenze che molto spesso la scuola stenta a riconoscere. Uno scossone a questa mentalità hanno cominciato a darlo le pratiche dei Centri Territoriali Permanenti, ma la strada è ancora lunga. Servirebbero delle indicazioni nazionali su standard riferiti alle competenze da valutare che comincino a diventare pratica didattica quotidiana.

Quando un giovane si trova ad incontrare il cosiddetto mondo del lavoro un aspetto molto importante è l’orientamento che gli si può dare e ancor prima la sua possibilità e capacità di informarsi.
Vorremmo un Suo giudizio sul ruolo che in questo senso hanno i nuovi strumenti di comunicazione e nello specifico la comunicazione con le famiglie?

Luci ed ombre dell’orientamento che pure ha fatto grandi passi in Italia. Direi tuttavia che esso è ancora prevalentemente informativo e assai poco formativo e si mobilita fondamentalmente nei momenti conclusivi dei percorsi scolastici (terza media, ultimo anno delle superiori). Le grandi campagne di informazione e l’uso delle nuove tecnologie rischiano però di raggiungere solo coloro che hanno la possibilità di accedervi e che sono motivati. La scuola, ancora una volta, potrebbe avere un grande ruolo, se adeguatamente supportata e se acquisisse la piena consapevolezza che il tempo destinato all’orientamento anche solo informativo non è tempo sottratto alla formazione dei giovani, come grande agenzia di informazione democratica perché capillare.

In qualità di Presidente nazionale di una associazione di genitori, può chiarirci quali sono i più significativi motivi di soddisfazione e le attese mancate di una famiglia nei confronti della scuola?


Rispondo partendo dal tema delle attese dei genitori nei confronti della scuola, universo che attraversa le famiglie italiane, tutte, per un cospicuo numero d’anni costituendo uno dei temi del lessico familiare. Credo, ad esempio,  siano diverse nel tempo le sfumature con cui il genitore ha compiuto un gesto rituale, ma di grande valore simbolico, quale quello di affidare, consegnare ad altri, il proprio figlio per la prima volta. In questo caso parlo dell’affidarlo alla scuola, cominciando dalla scuola dell’infanzia. Se negli anni ‘50 e ‘60 l’affidamento era connotato da un “bisogno” (specie se esso avveniva a tre anni e nelle strutture comunali) e la scuola, l’asilo (termine il cui campo semantico è già fortemente connotativo, il rifugio, appunto, il luogo della cura in sostituzione di….), la cultura diffusa è venuta modificandosi nei fatti già negli anni ‘70, quando alla scuola d’infanzia ed in particolare al suo ultimo anno, era assegnato dai più un compito: quello della socializzazione, della preparazione (non dell’apprendimento) al luogo simbolico per eccellenza ad essa deputato, la scuola elementare. I sempre più numerosi figli unici di famiglie mononucleari erano mandati a scuola con un mandato implicito da parte dei genitori: imparare i linguaggi degli altri, adulti e pari, uscire dal lessico familiare per imparare le regole condivise di un mondo altro, sentito come indispensabile per crescere. Bambini spesso figli di genitori diversi dalle nostre attese, cioè figli di adulti connotati da un “comportamento di resa”; bambini rari e preziosi in un periodo di natalità ai livelli minimi, quasi sempre figli unici di genitori che tendono ad evitare ogni sorta di conflitti perché incapaci di sopportare il “malessere dell’autorevolezza”, il malessere del no da dire ai figli per dare loro il senso del limite all’onnipotenza infaDia Indirentile.
E’ questo affidare il primo momento su cui poco, a parte una facile retorica deamicisiana da primo giorno di scuola e relativa apologia del distacco, s’indaga. Quali le attese del genitore verso un luogo altro da sé, quale il suo immaginario, quale la sua curiosità verso la vita del figlio che si percepisce spesso per la prima volta come destinata ad un cammino autonomo?
Uso a questo proposito la metafora della contaminazione e di essa vorrei recuperare tutta la positività: c’è un’implicita consapevolezza da parte del genitore che si tratti di contaminazione positiva, indispensabile per crescere, ricchezza che il confronto con altri, adulti o pari, garantisce un’accettazione delle differenze, una preparazione, l’unica possibile, per il mondo che è plurale. Nessun genitore può, neppure in un delirio d’onnipotenza, pensare il proprio figlio come un clone di sé. (Peraltro solo se si è convinti che il figlio non è una delle tante proprietà personali, ma un individuo altro da sé, col quale è complesso, difficile, intessere un rapporto, solo in questo caso prende autonomia con problematiche specifiche la figura del genitore). Un mandato, quindi, quello che le famiglie attribuiscono alla scuola più complesso della semplice richiesta di istruzione adeguata e di preparazione al mondo del lavoro per i propri figli. Ma proprio un’attesa di questo tipo, per la sua complessità, poiché coinvolge anche il ben-essere dei giovani rischia di andare delusa: la scuola non è sempre attrezzata per un mandato così articolato; la comunicazione scuola-famiglia spesso bloccata e sulla difensiva reciproca. I motivi di soddisfazione? Quando si ha la percezione di compiere insieme agli operatori scolastici un percorso il cui senso è condiviso, quando si riescono ad esplicitare le attese e le paure reciproche, quando si riesce a collaborare, ognuno per le sue competenze, al raggiungimento di un obiettivo comune. Devo aggiungere che questo avviene di frequente nella relazione scuola-famiglia nella scuola dell’obbligo (particolarmente nella scuola elementare), è elemento raro nel proseguimento degli studi.

Quali crede siano alla luce dei cambiamenti, anche legislativi, che stanno attraversando il mondo della Scuola, i compiti più urgenti di cui una associazione di genitori come la vostra può farsi carico?


Se la scuola deve fare la sua parte curando la formazione degli insegnanti dal punto di vista relazionale-comunicativo, il ruolo di un’associazione genitori oggi assume rilevanza sul versante della formazione dei genitori. Quello dei genitori è assimilabile ad un processo d’apprendimento: la scuola è l’agenzia specializzata per eccellenza nel produrre formazione. Non si tratta di delegare la scuola ad attivare una delle ennesime “educazioni” e, accanto all’educazione ambientale o a quella stradale, inaugurare una stanca educazione dei genitori. Si tratta invece di intraprendere una nuova modalità comunicativa tra scuola e famiglie intesa come una relazione di lavoro caratterizzata da comuni obiettivi, rispetto reciproco e volontà di negoziare.
In questo il rinnovato ruolo delle Associazioni dei Genitori. Esse da anni sentivano l’angustia dei confini di un diritto da esercitare (quello degli eletti negli organismi collegiali a vario livello), progressivamente privo di senso democratico reale ed andavano sperimentando nuovi e più efficaci livelli di intervento: in primo luogo nella formazione dei genitori che alle Associazioni approdavano per vincere il senso di solitudine o per trovare quelle informazioni che la scuola spesso negava o concedeva con un lessico tutto autoreferenziale e quindi esclusivo dell’altro, Per i genitori tali associazioni hanno costituito un punto di riferimento, lo spazio di un’alfabetizzazione democratica, di una partecipazione consapevole e duratura al di là della temporaneità del percorso scolastico dei loro figli: spazio nel quale consorziare i bisogni, imparando a rappresentare esigenze non individuali e localistiche, ma coerenti con l’interesse generale.
Naturalmente col tempo e l’esperienza siamo arrivati ad un’idea di formazione più efficace, che ha superato il modello piramidale o rigidamente contenutistico inteso come trasferimento di informazioni psicologiche, pediatriche e così via, per un modello in cui il formatore sia solo un facilitatore dell’individuazione e del potenziamento delle risorse già a volte inconsapevolmente possedute dai genitori. Si tratta in sintesi di rafforzare la propria potenzialità a fare i genitori, di far maturare la consapevolezza che “si può fare qualcosa”, nel senso di conquistare opportunità e risorse per intervenire sulla realtà. L’accrescimento del proprio potere, inoltre,  deve essere sentito non come diminuzione del potere di qualcun altro, ma come “moltiplicatore del potere degli altri soggetti educativi coinvolti”.
La scuola dell’autonomia, il nuovo assetto legislativo della scuola implicano un nuovo modo di porsi dei genitori e delle loro necessarie associazioni: esso non potrà che andare verso il confronto tra esperienze e conoscenze spesso eterogenee e diversificate, in relazione a concreti e specifici contesti di vita e di lavoro.

 

Intervista e editing a cura di Francesco Vettori, Comunicazione Indire 


 

 

 


 

 
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