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ANALFABETISMO

Tanti analfabetismi anche oggi

La situazione italiana e le risposte a un problema che non si risolve ancora

di Bruno Schettini
19 Luglio 2005

Vorremmo conoscere alcuni dati quantitativi circa l’analfabetismo: quanti analfabeti ci sono in Italia e come sono distribuiti sia geograficamente che socialmente?

Prima di rispondere a questa domanda, bisognerebbe chiarire in partenza a quale “tipo” di analfabeta ci si vuole riferire. Molti studiosi, pur mantenendo il termine, affermano che esso risente del riferimento a condizioni storiche ormai mutate. Per altri non si tratterebbe elusivamente di “eliminare” un termine semanticamente obsoleto, ma di correggere una errata impostazione del problema: non ci si ritroverebbe di fronte ad individui che non posseggono codici (di lettura, scrittura…), ma davanti a individui che sono incapaci di utilizzarli. Qualcuno ha definito ciò analfabetismo di ritorno, altri preferiscono il termine illetteratismo…
Per economia del discorso, stando solo all’uso che se ne fa nella letteratura specializzata,  potremmo riferirci a:

  • alfabeti (individui a rischio alfabetico);
  • analfabeti/analfabetismo - di fatto - (coloro che non posseggono nessun titolo di studio e non sanno né leggere né scrivere);
  • illetterati/illetteratismo (condizione di un individuo che pur possedendo un minimo repertorio di lettura e scrittura, non è in grado di utilizzare il del linguaggio scritto per ricevere o per formulare messaggi);
  • analfabeti di ritorno (coloro che sono esposti a rischio alfabetico verticale che comporta il regresso al titolo di studio inferiore quando esso non sia stato esercitato convenientemente per cinque anni);
  • semianalfabeti (possessori della sola licenza elementare che nella nostra società significa non avere la pur minima possibilità di inclusione sociale, culturale).
  • Analfabeti funzionali (coloro che non sanno utilizzare le abilità di base per poter esprimere il loro diritto di cittadinanza.

Questo chiarimento di fondo, che andrebbe approfondito con accuratezza, è essenziale per decidere anche del tipo di “risposta” che si intende dare.
Una cosa è analizzare l’analfabetismo in Italia (e quindi chiedersi cos’è l’analfabetismo) altra cosa è analizzare la distribuzione delle conoscenze attestate dal titolo di studio, altra cosa ancora è analizzare la funzionalità delle conoscenze possedute.
Le ricerche Ials-Sials, per esempio, si interessano di quelli che potremmo definire analfabeti funzionali (anche se chiaramente, coloro che si situano al livello più basso – stabilito in queste ricerche – della funzionalità delle conoscenze possedute potrebbero essere ai limiti dell’analfabetismo vero e proprio).
Dai dati diffusi nel 1999 dal CEDE risulta che vi sono in Italia circa due milioni di persone ed hanno un’età compresa tra i 16 e i 65 anni: è il 5,4 per cento della popolazione fra i 16 e i 65 che risultano analfabeti funzionali. Un totale di 2.080.000 persone.
Ma enormi ritardi nell'istruzione primaria sono presenti soprattutto nelle generazioni vissute prima del 1964. Se infatti fra gli italiani di età compresa tra i 16 e i 45 anni, il tasso di analfabetismo funzionale rientra nella media europea, per la fascia 46-65 la situazione è drammatica: sono in tutto - secondo i dati del CEDE - un milione e quattrocentomila persone.
Il ritardo nell’istruzione primaria, inoltre, sale vistosamente man mano che si scende da Nord a Sud e che si sale nelle classi d’età. Per i sedici-venticinquenni il dato nazionale sull’analfabetismo funzionale parla del 3,8 per cento del totale, con una distribuzione concentrata in Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna. Per la fascia d’età 26-35 anni la percentuale è del 9,1 per cento, con punte massime in Piemonte, Toscana, Umbria, Campania, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna. Le cifre salgono (20,9 per cento) per gli italiani compresi fra i 36 e i 45 anni (particolarmente colpite Marche, Toscana, Campania, Abruzzo, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna). Ancora peggio per i 46-55enni fra i quali l'analfabetismo funzionale arriva a toccare il 29,9 per cento della popolazione. Ma problemi gravi esistono per coloro che hanno fra i 56 e i 65 anni, che la cui alfabetizzazione di base è carente nel 36,2 per cento dei casi. Le regioni più interessate: Piemonte, Lombardia, Trentino, Veneto, Marche, Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Abruzzo, Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna.

Una ricerca sulla quale bisognerebbe puntare l’attenzione, sempre per il cosiddetto analfabetismo funzionale, è: ALL (All: Adult Literacy and Lifeskills. Letteratismo e abilità per la vita/popolazione 16-65 anni. Competenza alfabetica funzionale). Tale ricerca ha analizzato i seguenti ambiti di competenze: Prose literacy, Document literacy, Numeracy, Problem solving. 
L’avvio dell’indagine ALL ha coinciso con l’ultimo round dell’indagine IALS-SIALS cui l’Italia aveva preso parte nel corso degli anni 1997-98.
Tre regioni, Campania, Piemonte e Toscana sono state prese a campione (la pubblicazione dei rapporti relativi alle quattro regioni ed alla provincia autonoma sarà disponibile entro l’autunno del 2005). [Si può intanto vedere l'articolo correlato All: Adult Literacy and Lifeskills.]

La ricerca è stata compiuta prendendo come riferimento cinque livelli:

  • LIVELLO 1: indica persone capaci di localizzare un pezzo di informazione che è identica o sinonima di quella data nella consegna, ma in generale hanno difficoltà nel fare inferenze di livello basso.
  • LIVELLO 2: indica persone che sono capaci di fare inferenze di livello non elevato identificando uno o più pezzi di informazione e integrando o “contrastando” parti di informazione collocata in diverse sezioni di un testo che contiene solo pochi distrattori.
  • LIVELLO 3: induca persone che sanno fare inferenze di livello medio, partendo da informazioni, che sono collocate in diverse parti del testo e in diverse frasi o paragrafi, e integrando o “contrastando” le informazioni che si trovano nelle varie sezioni di un testo che contiene un certo numero di distrattori. Questo livello richiede di padroneggiare l’informazione contenuta nelle varie tipologie di testi che nelle società moderne si trovano nella vita di tutti i giorni.
  • LIVELLO 4/5: indica persone che raggiungono sono in grado di fare inferenze di livello medio alto basate sulla lettura di un testo, integrando o “contrastando” pezzi di informazione, tratti da testi relativamente lunghi che possono contenere anche molti distrattori.


Gli esperti considerano che la quota di popolazione adulta, che raggiunge il livello 3 di competenza, misurata su cinque livelli che vanno dal livello 1, limitatissime competenze, ai livelli 4/5, padronanza sicura, è quella capace di rispondere efficacemente alle esigenze di vita e di lavoro del mondo attuale: solo il 20% della popolazione italiana raggiunge o supera questo livello.
Ora, c’è da dire che una prima analisi potrebbe essere compiuta proprio su coloro i quali si attestano al livello 1. Uno sguardo sui dati emersi dalle regioni interessate all’indagine pilota, riferibili, per economia di discorso alla sola litteracy, mostrano come in Campania il 62,8% è a rischio alfabetico, mentre in Piemonte il 50,5% e in Toscana il 54,6%.


Alcune considerazioni sui dati:

  • Prima di tutto si fa notare che il problema dell’analfabetismo è un problema dell’odierna società della conoscenza che se da un lato promette, in una sorta di positivismo conoscitivo, stesse opportunità di istruzione e formazione per tutti, e riduzione dell’analfabetismo; dall’altro rischia di creare e perpetrare antiche e conosciute divisioni tra individui che posseggono il “potere” della parola (litteracy, numercy e soluzione di problemi) e altri che non possono inserirsi nei circuiti culturali, formativi, sociali, lavorativi…;
  • In seconda battuta, c’è da notare che il rischio alfabetico non è tout court l’anticamera dell’analfabetismo vero e proprio. Questo significa che politiche dell’educazione e strategie comunitarie dei paesi membri dell’UE devono essere predisposte e progettate tenendo presente che il rischio alfabetico rimane tale se non si avrà la capacità di riformare i sistemi formali di educazione/istruzione integrandoli con le vaste e ricche esperienze di educazione degli adulti che vanno ri-sorgendo in tutta Europa;
  • Bisogna, inoltre, riflettere sulla funzione della scuola elementare: leggere, scrivere e far di conti è uno standard di competenza a cui tutti possono arrivare in un normale ciclo scolastico-curriculare o, piuttosto, una condizione che non è più garantita dagli stessi contenuti comunicati, dalle competenze progettate, dagli sforzi messi in atto dagli insegnanti? In parole diverse: la stessa scuola elementare è in grado di fornire competenze di questo tipo che non si perdano o regrediscano nel tempo? Si esce dalla scuola elementare con le competenze minime per l’alfabetizzazione? O, ancora, si esce dalla scuola media con i requisiti minimi per essere alfabetizzati in maniera funzionale, in modo tale da inserirsi attivamente nella vita sociale, culturale, lavorativa? La possibile perdita o regressione di queste competenze è imputabile alla sola scuola di base o il problema risiede in una mancata implementazione di un’educazione/istruzione che duri per tutta la vita  e che in maniera permanente “fa fare uso” agli individui delle competenze di base?
  • In che modo l’analfabetismo è diventata questione meridionale? Occorrerebbe investire di questo problema tutte le compagini politiche, sociali, sindacali in una sorta di rinnovato problema nazionale di cui, il Sud e le isole rappresentano un obiettivo, ma allo stesso modo una risorsa per tutte quelle potenzialità che è possibile far emergere;
  • Inoltre, alcuni dati anche se non scientificamente validati, affermano che al Sud, pur essendoci più disoccupati, essi, nella maggior parte, sono laureati. Al Nord, invece, a meno disoccupati fa riscontro una percentuale più bassa, rispetto al Sud, di laureati. Cosa vorrebbe dire questo dato? Forse il problema sta nell’integrazione tra momenti di studio e momenti di lavoro, o per dirla in termini pedagogici, nella capacità politica (educativa) di non creare fratture tra mondo dello studio e mondi della vita, nel non separare temporalmente e situazionalmente, apprendimento formale, non formale e informale.

Su di un versante di analisi quantitative si situa anche la recente ricerca del prof. Saverio Avveduto che, rielaborando alcuni dati ISTAT (1), nota che «a fronte di 3.699.000 italiani che possiedono un dottorato di ricerca, una laurea o una laurea breve, sta l’enorme serbatoio dei nostri concittadini analfabeti, semianalfabeti o in possesso della sola licenza elementare: 22.529.000 italiani sul totale della popolazione di 57.474.000. Si tratta  di 39,2 italiani su 100» (2).

Disaggregando il possesso della licenza elementare/nessun titolo per quattro aree regionali: Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Meridione, si nota dalla tabella sottostante come  «ancora una volta è il Meridione, con oltre il 40% di “evasori dalla Costituzione” a pagare lo scotto più alto dell’arretratezza educativa del Paese» (3) :

Aree Regionali
Popolazione in possesso di lic. elem./nessun titolo
Percentuale
Nord-Ovest
5.550 su 15.042
36,9
Nord-Est
4.144 su 10.618
39,0
Centro
4.170 su 11.091
37,6
Meridione
8.665 su 20.722
41,8
Italia
22.529 su 57.474
39,2

 

Regione
Dati assuluti in migliaia
Percentuale
Calabria
879
43,4 %
Puglia
1.761
43,3 %
Sicilia
2.155
42,8 %
Basilicata
263
43,8 %
Campania
2.325
40,4 %
Sardegna
638
39,0 %

Le riflessioni su questi dati può riguardare un punto essenziale: il disequilibrio tra le diverse regioni italiane. Allora, occorre riflettere sul fatto che:

  • Occorrono, sicuramente, politiche dell’educazione che si spingano al di là, altrove e con tempi diversi da quelli organizzati e isituzionalizzati dal sistema formale di istruzione/formazione. A riprova di ciò le analisi dei dati ISTAT ci fanno riflettere  «sulla situazione del capitale umano ad alta qualificazione nelle quattro aree regionali predette e le corrispettive disaggregazioni per le sei regioni meridionali a rischio. La Calabria registra la contraddittoria compresenza del tasso di laureati comparativamente più alto (5,1%): più alto, va notato, del Veneto (5,0%), della Valle d’Aosta (4,2%) e quasi pari al Piemonte (5,5%), e di quello ben corposo dei semianalfabeti (43,4%). La Basilicata ha il doppio saldo negativo del più alto numero di semianalfabeti (43,8%) e del più basso patrimonio di laureati (4,0%) della Penisola» (4) ;
  • Occorre ripensare i cosiddetti corsi di alfabetizzazione per gli adulti proposti dai CTP. Ripensarli significa che accanto a quella che può essere una proposta di mera alfabetizzazione culturale (leggere, scrivere e far di conti), occorre agire in vista di un’offerta che sviluppi l’autonomia, lo sviluppo della percezione di sé, della propria autopercezione come individuo che si alfabetizza per una crescita personale e sociale non solo per riuscire funzionalmente a utilizzare queste pur fondamentali abilità di base.
  • Occorre proporre offerte di alfabetizzazione non come conseguimento di un titolo e, quindi, di un pezzo di carta, ma come occasione che crei vantaggi sociali, culturali, lavorativi, personali e di cura di sé.


Un tema particolarmente importante oggi è certamente quello dell’EdA, dell’educazione degli adulti in vista di un’ educazione che continua lungo tutto l’arco della vita: può parlarci di quelle che Lei giudica le esperienze più significative in questo senso?

Le esperienze più significative – definite da qualcuno solamente pratiche di EdA o buone pratiche o pratiche di eccellenza, nel caso in cui queste ultime rispondano ad alcuni criteri di validazioni condivisi e previamente stabiliti a livello nazionale ed europeo – potrebbero essere “ordinate” o per problematica (a quale bisogno rispondono e con quale attività/contenuto) o per fonte di produzione e realizzazione (istituzione o agenzia che eroga il servizio).
Secondo un ordine “per problematiche”, si  potrebbero segnalare, per economia di discorso, due diverse tipologie di esperienze. La prima è legata a contesti formativi particolari e per i soggetti disagiati (detenuti, adulti bordeline, tossicodipendenti…). Molte di queste esperienze partono dalla convinzione che l’EdA debba svolgere una funzione emacipatoria globale e integrale: l’EdA legata alla sola formazione professionale non riesce a dare risposte di senso alle domande dei soggetti adulti a cui ci si riferisce.
Questa tipologia di esperienze centra la sua attività su un espresso lavoro di cura sulla persona perché questo tipo di intervento permette di sviluppare nei soggetti adulti il senso di autostima personale e conferisce una rivitalizzazione palese delle motivazioni di fondo a…prendersi cura di se stessi per crescere in umanità.
La stessa offerta di lavoro da “consegnare” a questi soggetti, in questo modo, viene inserita in un percorso di formazione più ampio, complesso e situazionato rispetto alla condizione del soggetto adulto. La sola offerta di lavoro, sganciata da una qualsivoglia attribuzione di senso da parte dell’adulto, rischia di essere avvertita come qualcosa di ‘estraneo’ alla propria vita.
Al contrario, una qualsivoglia offerta di lavoro può diventare veramente umanizzazione e entrare a far parte della vita di una persona solo se si punta a ricreare nell’individuo motivazioni di senso personali e progettuali.
È tale processo che spinge a costruire un nuovo progetto di vita ed  è questo il momento e il “luogo” che può accogliere un’offerta di lavoro. In questa prospettiva, anche ambienti formali di istruzione/formazione possono divenire “luoghi” in cui il formatore entra nella vita delle persone; situazioni vitali dove porre domande e sollecitare le risposte; processi di consapevolezza di sé per interpretare e spiegare il mondo. Ecco, allora, che la stessa tipologia di esperienza può realizzarsi con percorsi di formazione autobiografici; con altri legati alla discussione/tematizzazione della propria condizione di vita; altri ancora attraverso la creazione di “laboratori” protetti di scrittura creativa, dell’espressività…
La seconda è riferibile ad una tipologia di esperienze che, allontanandosi “discretamente” da una visione di EdA che punta alla riscoperta del significato per l’esistenza nel senso umanistico del termine, pur tuttavia mantengono come filo  rosso delle loro attività la restituzione di senso del proprio vivere. In questo caso si fa riferimento a quei percorsi di formazione di EdA in cui si tenta di promuovere atteggiamenti positivi verso il lavoro autonomo per la diffusione della cultura dell’imprenditorialità. Allora, lo sviluppo delle attività di questo tipo di esperienze punta sì allo  sviluppo di  competenze specifiche, professionalizzanti, ma lo fa, prima di tutto non dimenticando quelle di tipo trasversale, sociali, “umanizzanti”, ma anche nella prospettiva di sviluppare senso di autonomia personale e collettiva individuale, collettiva e professionale. Ecco, allora che questi percorsi possono tradursi in una  vera e propria costruzione di piccole imprese; nella costituzione di cooperative sociali; nella formazione di gruppi di lavoro che analizzano i bisogni del proprio territorio di appartenenza per essere protagonisti dello sviluppo locale

Secondo un ordine per “fonti”, è invece, possibile segnalare esperienze provenienti dalla dimensione formale e da quella non formale. La prima tipologia di esperienze riferibile all’ambito formale va individuata e riconosciuta nello sforzo istituzionalizzato e costante che viene profuso all’interno dei Centri Territoriali Permanenti (CTP). Qui è possibile incontrare esperienze di diverso tipo: da quelle più propriamente finalizzate all’alfabetizzazione di base a quelle più specificamente progettate per dare risposta al bisogno di utilizzo del tempo libero per prendersi cura di sé e trasformare così l’otium in negotium. Sono, certamente, due estremi di una linea di formazione che, però, esprimono l’enorme potenzialità che posseggono i CTP. Il problema è quello – segnalato per altro, a più riprese da chi da anni lavora e “si sporca le mani” in questi stessi luoghi di formazione/istruzione – di riuscire a trasformare i cosiddetti “corsi” di EdA in vere e proprie situazioni apprenditive capaci di in-formare di sé tutte le dimensioni dell’essere umano: formazione  alla cittadinanza; educazione alla salute; educazione alla cooperatività…, insomma, tutte quelle espressioni che appaiono comprese nelle locuzioni lifelong learning e lifewide learning.
La seconda tipologia ha a che fare con quelle esperienze realizzate dall’associazionismo sociale. Si tratta di percorsi di formazione che privilegiano  la crescita dell’individuo in tutte le sue dimensioni; percorsi di associazioni, movimenti, comunità di uomini che propongono offerte formative, prevalentemente, espressioni di un bisogno, non solo di formazione, ma sociale, politico…di cittadinizzazione; percorsi che considerano lo stesso incremento e sviluppo dell’alfabetizzazione in una visione che potremmo definire integrata, cioè in una prospettiva in cui la stessa funzione alfabetizzante viene interpretata in direzione di una crescita umanizzatrice.
Ecco, allora che ci troviamo di fronte a contesti di formazione ambientale, alla legalità, alla cittadinanza attiva, alla salute, alla vita democratica, al recupero delle tradizioni locali… (5).

Spesso si richiama una forma di analfabetismo definita “informatica”, per sottolineare il ruolo acquisito dalle nuove tecnologie e il loro potenziale di innovazione; Le chiediamo un suo giudizio circa l’importanza degli strumenti digitali, come il computer e la rete internet, nel processo di insegnamento/apprendimento e il loro valore emancipatorio.
  

A proposito dell’interrogativo, è quasi d’obbligo richiamare che il Consiglio europeo di Lisbona, tenutosi in sessione straordinaria il 23 e 24 marzo del 2000, tra le numerose proposte della Commissione atte a risolvere il difficile problema occupazionale, individua come  competenze di base, da fornire lungo tutto l’arco della vita, le competenze in materia di: tecnologie dell’informazione, lingue straniere, cultura tecnologica, imprenditorialità e competenze sociali (6).
Il Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente, per parte sua, come documento della Commissione Europea pubblicato in risposta al Consiglio di Lisbona, sottolinea come  le tecniche di apprendimento basate sulle TIC offrano un grande potenziale di innovazione per i metodi di insegnamento e apprendimento; come i pedagogisti insistano sulla necessità di integrarle in contesti didattici e in una relazione Insegnante/Allievo in tempo reale per renderle più pienamente efficaci; come le TIC rappresentino un mezzo formidabile per raggiungere popolazioni sparpagliate e isolate a costi relativamente contenuti; come l’apprendimento online consenta a ciascuno di sfruttare al meglio il tempo di cui dispone, ovunque si trovi.
Bastano queste poche indicazioni per far affermare a chiunque che, indubbiamente, il grado di partecipazione di un individuo a quella che, impropriamente, viene definita società della conoscenza – sulla quale bisognerebbe compiere una vera e propria ricognizione semantica e concettuale – viene oggi misurato dalla sua competenza/abilità/capacità di potere utilizzare con minore o maggiore abilità le tecnologie informatiche (7).
Se apprendere è un processo che dura per tutto il corso della vita e se tale apprendimento ha la pretesa di costituirsi nella duplice prospettiva pedagogica espressa dai termini lifelong learning e lifewide learning, questo vuol dire che, nella loro totalità, gli strumenti digitali vanno analizzati con accuratezza dal versante pedagogico-didattico. Essi possono produrre, al contempo, inclusione sociale ed esclusione sociale.


Il problema sta nel riflettere, previamente, su alcuni elementi dirimenti.

Prima di tutto, il contesto in cui avviene l’apprendimento/insegnamento. Molti pedagogisti parlano a proposito di ambiente tecnologico di apprendimento che implicherebbe un nuovo rapporto di comunicazione in cui al tradizionale rapporto tra alunni e insegnanti, si aggiungerebbe un terzo elemento di comunicazione costituito dalle tecnologie innovative stesse che condurrebbero ad un nuovo linguaggio, quello analogico, capace di ri-combinare i termini classici della relazione educativa.
Ora, se il contesto che si costruisce è un contesto basato sul rapporto faccia a faccia in cui le nuove tecnologie assumono la funzione di strumenti di supporto per singole e determinate unità di apprendimento, ecco allora, che la portata di queste tecnologie può rivestire e assumere una funzione particolare di strumento per l’apprendimento. Pensare all’uso degli strumenti digitali in “assoluta solitudine”, lasciando il formando, il discente solo davanti a ciò che gli ermeneuti potrebbero considerare il nuovo “mondo del testo” digitale, potrebbe condurre ad uno svilimento se non addirittura all’annullamento di ciò che crea formazione ed educazione: la relazione. Quale relazione può esistere tra un mondo del testo digitale, già preconfezionato nei contenuti, nella metodologia e nella sua stessa funzione per la quale un testo, un contenuto agisce: quella interpretativa, di rielaborazione personale.
In secondo luogo, occorrerebbe chiedersi qual è la fonte delle informazioni alle quali si può accedere tramite gli strumenti digitali e chi seleziona e per quale scopo espresso o inespresso. La semplice informazione non è tout court assimilabile alla conoscenza e, quindi, a situazioni formative. Per esserci formazione attraverso o con l’uso degli strumenti digitali occorrerebbe che si verificassero le condizioni proprie in cui si co-costruisce un set/setting formativo. Occorrebbe forse pensare, per realizzare “contenuti di qualità”, ad una sorta di authority pedagogica che valuti non i contenuti in sé, ma “il cosa” può produrre un tipo di contenuto messo in rete e “quali” situazioni apprenditive può realizzare o non realizzare?
In terzo luogo, come segnalano molti studiosi di pedagogia e di tecnologie della comunicazione, l’uso del mezzo digitale può provocare quello che viene definito l’analfabetismo di ritorno o meglio illitteratismo: il sapere leggere, scrivere e far di conto sono abilità che non vengono più esercitate perché, appunto, le nuove tecnologie, per alcuni versi, permettono di farne a meno, per altri, addirittura di sostituirle senza chiedere nessuno sforzo di recupero di abilità di base che un tempo erano essenziali per poter vivere e comunicare.
In quarto luogo, occorrerebbe chiedersi se dietro lo sviluppo di modelli didattici innovativi propri dell’E-Learning o, più in generale delle TIC, auspicati dai documenti europei quali quello E-Learning. Pensare all’istruzione di domani, vi sia la possibilità di valutare il valore e la consistenza di quelli che vengono definiti “nuovi tipi di rapporti tra alunni e insegnanti”.
D’altra parte, occorre stare molto attenti a quello che potrebbe essere considerato il totalitarismo tecnoscientifico per il quale conta solo la quantità e non la qualità, la celerità e non la durata, come recentemente hanno fatto notare Karl Popper e Edgar Morin. La formazione è minacciata da esigenze cronometriche in cui sembra non vi sia tempo per la riflessione. Se non c’è investimento sulla riflessione, allora viene da chiedersi se non sia proprio questo l’obiettivo sotteso alla formazione proposta oggi ai giovani e agli adulti, sotto le mentite spoglie dell’occupabilità e della impiegabilità.
Ai nostri giorni, la formazione, per riprendere Ettore Gelpi, Paulo Freire e altri ancora, deve tornare ad essere un progetto politico in cui scienza, etica e la stessa politica lavorino per una cultura della comprensione e non soltanto per una cultura dell’informazione (8) .

Note:

(1) ISTAT, Forze di lavoro – Media 2002 (25 Febbraio 2003, Collana Annuari), cit. in S. Avveduto, Volar zenz’ali, I.P.S., Roma 2004.

(2) Cfr. Avveduto S., Volar zenz’ali, I.P.S., Roma 2004.

(3) Ivi.

(4) Avveduto S., Volar senz’ali, cit.

(5) Su questo stesso sito, si segnala il Report del II Seminario Glocale su “La formazione degli adulti alla cittadinanza. Esperienze e Misure di formazione a confronto” (Capua, 29 marzo 2005).

(6) Consiglio Europeo di Lisbona,  Bruxelles, 23-24 Marzo 2000, par. 8. Si può vedere anche http://www.europarl.eu.int/summits/lis1_it.htm

(7) Commissione delle Comunità Europee, Memorandum europeo sull'istruzione e formazione permanente, Bruxelles 2000, pp. 15-21. Si può vedere memorandumeuropeo.pdf (279803), .

 

L'intervista a Bruno Schettini è stata curata da Francesco Vettori, UfficioComunicazione, Indire

 

 

 

 
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