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SISTEMI EDUCATIVI EUROPEI

"Ogni alunno è per noi fondamentale"

Un approccio comparativo: prestazione di sistemi scolastici e dimensione della diversità

di Carmela Grassi
30 Giugno 2008

Dia IndireIn Germania  dal 2004 il sistema scolastico è stato ampiamente riorganizzato dai Ministeri dei vari Länder dopo che gli studi PISA degli anni 2000/2003 avevano rilevato come le prestazioni degli alunni, soprattutto quelli con un background di emigrazione e quelli appartenenti ai ceti sociali meno abbienti, risultavano essere molto al di sotto della media OECD. Ai fini di quest’articolo riferirsi ai sistemi scolastici della Repubblica Federale Tedesca può essere interessante, in quanto essi sono in genere fortemente selettivi: una prima selezione avviene in genere a partire dalla quarta classe della scuola primaria ed è, come rivelano le ricerche, fondamentalmente una selezione sociale: essa permette alle élite (chi ha i voti per frequentare un liceo, in maggioranza alunni provenienti da famiglie con formazione universitaria) di raggiungere titoli di studio elevati.
Come ha rilevato il Commissario delle Nazioni Unite, essa di fatto discrimina sistematicamente una larga parte di alunni, negando loro l’accesso ad una formazione superiore sulla base di una presunta o verificata attitudine cognitiva. Nel Sud della Germania (Baviera e Baden-Württemberg) questo ha significato per decenni un ripiegamento degli obiettivi propri delle istituzioni educative verso le aspettative del mercato del lavoro, creando una pericolosa armonia di intenti. Paradossalmente è proprio l’evoluzione dell’economia a mettere in luce quanto sia difficile oggi “parcellizzare” le competenze fornendo a tanti formazione professionale molto specifica, lasciando a pochi titoli di studio più elevati e qualificanti.
La selezione, in questo caso, non solo è discutibile dal punto di vista etico e democratico, ma rischia di diventare perdente anche dal punto di vista economico.
In Italia, dove negli ultimi decenni il sistema scolastico è stato modificato e riformato, in modo costante e non sempre coerente, il dibattito circa i risultati degli studi internazionali è rimasto per molto tempo un tema per specialisti; anche da parte di famosi pedagogisti non sono mancate affermazioni molto polemiche sulla validità degli esiti delle ricerche.
Accanto ad una certa tendenza a svalutare il significato degli studi internazionali rispetto alla loro capacità di fornire indicazioni e previsioni sull’efficienza di sistemi scolastici, in Italia sembra svilupparsi una dicotomia, già presente nel primo Dopoguerra, tra due atteggiamenti fondamentalmente opposti: da un lato l’enfasi viene posta sul “merito”, evidenziando la necessità di ulteriori riforme che indirizzino gli alunni sulla base di attitudini presupposte o verificate, dall’altro l’accento viene posto sull' ”uguaglianza”, tendendo però a minimizzare le conseguenze pratiche ed organizzative che una presa in carico delle “differenze” richiederebbe.

Chi esalta il “merito” fa emergere un problema molto noto a chi opera nella scuola: nel sistema scolastico italiano si tende a interpretare la “scuola di tutti” come una scuola che non vuole fare differenze e che si ostina a non farle anche quando l’evidenza – per esempio i dati relativi alla “mortalità scolastica”- mette in luce da un lato un abbassamento generale del livello culturale in uscita degli alunni e la produzione di gravi “disuguaglianze ingiuste”, dall’altro quando le cosiddette “eccellenze” sono costrette ad emigrare là dove la ricerca ottiene le risorse ed i riconoscimenti necessari.
Chi si fa sostenitore dell’”uguaglianza” mette in primo piano innanzitutto un’esigenza etica fondamentale di cui la scuola deve farsi carico, ovvero di realizzare concretamente l’eguaglianza delle opportunità educative, di garantire l’espressione massima delle potenzialità individuali e di limitare l’”eterodirettività” dello sviluppo del singolo uomo/donna in nome di interessi istituzionali o di mercato. Ma si ha spesso difficoltà a pensare, organizzare, condurre e coordinare contesti reali di apprendimento in cui, salvaguardando l’ uguaglianza, emergono le differenze: si pensa in genere allo studente inserito in una classe dove domina la lezione frontale, che fa proprio il sapere in modo pressoché lineare e, con quella che alcuni chiamano “bulimia apprenditiva”, restituisce ciò che appreso in modo il più possibile lineare nei momenti opportuni. Questo studente uguale – quello che si vede spesso nei servizi televisivi sulla scuola, seduto in classe, rivolto all’insegnante-  è ancora oggi per molti di noi l’oggetto del dibattito.
E’ presente anche una tendenza a dare al termine “merito” un’ accezione che assomiglia sempre più spesso a quella di “attitudine” individuale e che si vuol fare Dia Indireportavoce del rispetto di tale diversità. E’ un problema molto complesso, in quanto il discorso sulle attitudini ha risvolti indubbiamente molto discutibili sul piano pedagogico: ripropone, tra l’altro alcune tendenze della pedagogia attivistica, pensiamo per esempio a certi atteggiamenti della Montessori o alla “scuola su misura” di Claparède.
In quest’ottica, l’aiuto verso l’alunno “debole” è finalizzato a garantire il massimo sviluppo delle sue capacità, stabilendo però ad un certo punto del suo percorso scolastico come, cosa e quanto egli possa raggiungere; l’alunno cognitivamente “forte” va aiutato a raggiungere l’eccellenza. Entrambi realizzerebbero il massimo delle loro potenzialità attraverso percorsi, anche scolastici, completamente differenziati (appunto, ”su misura”). Un esempio concreto di questo atteggiamento pedagogico è realizzato dal sistema scolastico, gia citato, del Baden-Württemberg, che dispone di un solo tipo di scuola comune di quattro anni (la primaria) e tre scuole (di avviamento, media e liceo), oltre a 10 tipi di scuole differenziali e speciali per ogni tipo “diversità” particolare. Bisogna precisare che sono le autorità scolastiche a decidere quale scuola debba frequentare un alunno.
Uno dei risultati più interessanti degli studi tipo il PISA, ma soprattutto delle ricerche comparative a carattere qualitativo, è stato a mio parere quello di aver messo in luce che il “successo” di un sistema scolastico non si definisce esclusivamente entro i due termini della dicotomia sopradescritta. Né la selezione, né una scuola “uguale per tutti” garantiscono di per sé prestazioni elevate ed eguaglianza di accesso alle opportunità formative; è la qualità dell’insegnamento e più precisamente la “presa in carico” responsabile del percorso di apprendimento dei singoli alunni a costituire la variabile fondamentale, accompagnate da un’analisi attenta e il più possibile affidabile dei risultati, capace di ri-orientare pratiche e progetti.
In questo senso può essere utile guardare l’organizzazione del sistema scolastico finlandese, Paese europeo che in tutti gli studi dell’OECD ha raggiunto le prestazioni migliori. Nell’ultima riforma operata su questo sistema (2005) sono state adottate due massime, a mio parere molto significative: la prima si può tradurre con “una scuola unica per differenti discenti” e la seconda è quella relativa alla formazione dei docenti: “ogni alunno è per noi fondamentale” .
Il riconoscimento da un lato della “diversità” come “normalità data” e dall’altro l’assunzione che ogni alunno ha diritto ad avere successo a scuola  e quindi nessuno deve andare perduto, sono due capisaldi di un sistema scolastico che prevede una scuola a tempo pieno per tutti i livelli, un unico esame finale (la maturità) e non permette la bocciatura. I programmi d’insegnamento, esattamente come le nostre “Indicazioni” del 2007, non determinano obiettivi; ma, in modo molto pragmatico, pongono domande specifiche alle quali i collegi devono dare risposte precise e verificabili.
La valutazione del lavoro attuato nella e dalla scuola, a cui viene riconosciuta totale autonomia, è svolta annualmente dal locale Ufficio scolastico in stretta collaborazione con i docenti e su un numero ridotto di scuole.
La quotidianità scolastica, così come gli obiettivi a medio e lungo termine, sono sempre frutto di un lavoro bottom-up; al dirigente, che insegna part-time nella stessa istituzione, viene assegnato un ruolo di coordinatore e gestore di risorse.
Ancora più interessante è il ruolo che assume l’insegnante: il docente è anche e soprattutto “consulente” del percorso di apprendimento; è lui a orientare il processo metacognitivo del discente già a partire dalle prime classi, rendendo l’alunno consapevole del punto del percorso in cui si trova, aiutandolo ad autovalutarsi e consigliandolo praticamente su come modificare atteggiamenti o superare quelle difficoltà che rendono l’apprendimento poco efficace o poco significativo. Il docente impara già all’università a lavorare in team, a condividere i risultati e ad analizzare criticamente il proprio operato; viene abituato a sottoporre ai colleghi i propri materiali di lavoro, i quali sono tenuti a riproporli ad altri gruppi, modificandoli e correggendoli.
All’insegnante viene chiesto di provare almeno una volta a presentare un’unità didattica di un materia che non ha mai né studiato ed insegnato: chi deve sforzarsi per imparare qualcosa di assolutamente nuovo è il migliore “mediatore” di apprendimento. Durante la maggior parte del tempo scolastico il lavoro è organizzato in gruppi di circa 15 alunni, che affrontano i contenuti in modo interdisciplinare: al docente vengono insegnate e fatte esercitare tecniche di gestione della classe nel senso cooperative learning  e strumenti di valutazione qualitativa-formativa.
Descritta così sembra di trovarsi di fronte ad una “scuola che non c’è” come l’isola di Peter Pan: di fatto questa “scuola” esiste  e, oltre a garantire l’uguaglianza, permette e sostiene la differenza. E’ soprattutto una scuola in cui sono cambiate progressivamente, dagli anni Ottanta ad oggi, la dinamica di potere e le relazioni tra le persone agenti nell’istituzione.
Al controllo si è sostituita lentamente la fiducia , al “sopravvivere” il difficile quotidiano scolastico la responsabilità, allo stress del “produrre per mostrare” l’attenzione alla concretezza dell’agire, alla considerazione di un’omogeneità di gruppi di apprendimento la categoria dell’eterogeneità.
Per tornare al discorso sulla “prestazione” dei sistemi scolastici tenendo conto delle osservazioni precedenti, l’opzione di chi vorrebbe selezione sulla base del merito è probabilmente – come mostrano i risultati della Germania - perdente.
Se si vuole, però, rendere conto di un’uguaglianza giusta, non si tratta di operare (esclusivamente) attraverso riforme, ma di costruire una diversa comprensione della diversità (di alunni e docenti) all’interno di dinamiche relazionali basate su rispetto, responsabilità e libertà, accettati alcuni assunti fondamentali:

  • in termini conoscitivi, arrivando a considerare la “diversità” come normalità, offrendo esperienze adeguate e significative durante il periodo di formazione;
  • in termini didattici, adottando modelli conoscitivi che riescano meglio a valorizzare le diverse competenze in entrata, aiutino a gestirle durante il percorso scolastico e attivino risorse pratiche per raggiungere le competenze richieste in arrivo. Didattiche costruttiviste, attente alla dimensione del soggetto conoscente possono costituire un approccio adeguato e significativo; la maggiore applicazione di tecniche di valutazione formativa permetterebbe di gestire in modo flessibile la ri-definizione di percorsi d’insegnamento/apprendimento;
  • in termini organizzativi, strutturando gruppi di apprendimento e “classi” in modo flessibile per osservare, valutare e sostenere responsabilmente il percorso di ogni singolo alunno, coordinando gli interventi pedagogico-didattici in modo efficace ed effettivo, imparando ad usare buone pratiche di gestione dei gruppi di lavoro dei docenti in funzione del raggiungimento degli obiettivi.

Dia IndireRispetto alla realtà attuale si tratta di operare un cambio di paradigma didattico, conoscitivo e gestionale, che peraltro sappiamo non essere solo frutto di idealizzazione ma realizzazione pratica già avvenuta in altri Paesi attraverso un lungo percorso di riflessione e ricerca.
A partire dagli anni Novanta i sistemi scolastici sono stati più volte al centro dell’attenzione di un ampio pubblico grazie alla divulgazione dei risultati di studi e ricerche internazionali, soprattutto quelli condotti dall’OECD, volti a verificare le competenze effettivamente raggiunte dagli studenti in diversi momenti del processo di scolarizzazione.  
Dopo il 2000, in molti Stati europei si sono susseguite analisi più o meno oggettive della condizione in cui le istituzioni scolastiche si trovano e diffusa la convinzione che la scuola in generale necessiti di interventi urgenti di riforma e ridefinizione degli obiettivi formativi e cognitivi. Si è assistito ad un sempre più forte utilizzo del termine “prestazione”, sia riferendosi ai sistemi scolastici nella loro complessità, sia confrontando i risultati raggiunti dagli studenti nei vari Paesi sulla base di una, non sempre condivisa, interpretazione della definizione di “competenza”.
Credo che lo sforzo maggiore da compiere per la scuola italiana sia ridurre lo iato profondo tra “teoria” e “prassi”, tra ricerca e  applicazione didattica. Il docente della visione gentiliana deve essere finalmente sostituito dal “buon artigiano” responsabile e capace di vedere il proprio agire come un work in progress di ampio respiro.
Credo inoltre che uno sforzo collettivo di responsabilizzazione, all’interno di tutte le istituzioni, debba essere accompagnato da una maggiore attenzione dei ruoli propri dell’istituzione scolastica: in molti Paesi europei, per esempio, il tema “scuola” è oggetto di inserti settimanali, in quotidiani, che si preoccupano di relazionare in modo serio ed approfondito su modalità di apprendimento e “buone pratiche”, sottolineando il valore della formazione scolastica rispetto alla dimensione della cittadinanza, quella che sarà necessaria per abitare il mondo “globalizzato” dei prossimi decenni.
Solo se la riflessione sulla “diversità” e il riconoscimento della sua importanza andranno oltre il discorso degli “esperti” e degli addetti ai lavori, attecchirà la fiducia nelle potenzialità di ogni membro della società.

 
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