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Rappresentare la conoscenza

I Geographical Information Systems: come riconosciamo il mondo, digitale e non?

di Francesco Vettori
05 Luglio 2012

Questo articolo nasce dalla convinzione del suo autore che un sistema di informazione geografico, innestato sopra un apparato tecnologico molto sofisticato e per come è in genere progettato, realizzato e infine usato, non sfrutti appieno quelle che sono le caratteristiche del digitale, cui prima di tutto la sua strumentazione tecnologica appartiene. Non è affatto scontato che un sistema di informazione geografico[1] debba essenzialmente servire per l’elaborazione numerica di dati e per la loro rappresentazione in mappe. Tale scelta di fondo, che guarda alle capacità di calcolo dell’elaboratore, precondiziona infatti ciò che del sistema farà parte, e non sfrutta l’opportunità, che il digitale offre, di far coesistere media e risorse diverse fra loro. E’ poi davvero problematico che la qualificazione geografica dei dati sia innanzitutto definita dalla loro georeferenziazione, valutando che ciò basti perché un dato rientri nel sistema e passando in secondo piano qualsiasi altro riferimento geografico. I sistemi di georeferenziazione usati nei GIS sono infatti assolutamente tradizionali, non aggiungendo nulla rispetto a quanto già conosciuto, anzi esemplificando che non c’è nel caso alcuna novità digitale.
In un Sistema di Informazione Geografico dunque si parte dai dati per arrivare, attraverso le mappe, al sistema. Un primo cambiamento, in quanto a produzione, sta nel numero elevatissimo, rispetto al passato, di mappe per temi, e tale cambiamento non è dovuto ai tematismi in sé ma conseguenza della quantità di dati geografici disponibili, considerati di esattezza e attendibilità molto maggiore rispetto al passato. Informazioni di tipo diverso vengono integrate fra loro, con la più recente aggiunta dello svolgimento temporale, potendosi rappresentare sia la terza dimensione che il movimento, quindi oggetti tridimensionali che si muovono[2].
Da qui il proliferare di mappe, e di mappe per tema. Uno sviluppo che segue certamente quello tecnologico. Presentato in questi termini, un GIS offre un esempio di ciò su cui gli studiosi della cosiddetta Sociologia della Conoscenza Scientifica (SSK) hanno appuntato la loro attenzione[3], intendendo per scienza innanzitutto una pratica: chi usa un GIS generalmente tende a minimizzare gli sforzi per una giustificazione teorica, servendosi invece dei moltissimi strumenti di cui esso si compone, in linea con quanto sostenuto da Andrew Pickering secondo cui la conoscenza scientifica non si vede costretta a ricorrere prevalentemente ad una qualche teoria per stabilizzarsi ma può farlo grazie all’apparato tecnologico e all’estensione di quelle pratiche che le sono proprie.
Oggi però ci serviamo di strumenti che mutano, innovandosi, con ritmo e velocità finora sconosciute. Bisognerà allora intenderne le specificità, di cui per cominciare diremo che tratto caratteristico è un continuo aggiornamento.
Se lo sviluppo è di questo tipo, ciò significa che quanto vale ed è utile oggi, nel giro di pochissimo tempo risulterà tecnologicamente obsoleto, sorpassato, inservibile. Resta quindi da capire che cosa la strumentazione nello specifico ci mette in condizione di fare. Quali per esempio le differenze macroscopiche fra uno strumento come il telescopio che Galileo si costruì e l’attuale apparato tecnologico - fatto di segnali, sensori, satelliti, stazioni a terra, etc - che permette il telerilevamento?
Oggi ideare, realizzare e usare un GIS vuol dire far parte di un gruppo molto nutrito di persone, a conferma del carattere di pratica condivisa che questo apparato tende ad instaurare.
Per chiarire su che cosa poggia e a che cosa conduce questa pratica, aggiungeremo che la presentazione dei dati elaborati da un sistema di informazione geografico produce delle “viste”, che infine si completano in mappe, continuando una chiarissima tradizione, che privilegia il senso appunto della vista e che in geografia è riassumibile nella riscoperta di Tolomeo da parte degli umanisti fiorentini, con alla testa il maggiore teorico del gruppo, Leon Battista Alberti, per il quale il processo conoscitivo si affida del tutto all’occhio, ad un atto di visione.[4]
Attenendoci alla massima che non solo si conosce ciò che si vede ma anche che si vede ciò che gi si conosce[5], consideriamo quali sono gli assunti del ricercatore che oggi utilizza un GIS quale forma di rappresentazione della conoscenza.

Egli sa che può contare su uno strumento che lo sostituisce quando si tratta di raccogliere, elaborare e archiviare dati, nella convinzione che questa operazione il computer la faccia ad una velocità e secondo una estensione maggiore rispetto a quella da lui raggiungibile. A questo punto occorre però sottolineare che il sistema da una parte, la singola informazione dall’altra, appartengono a piani diversi e bisogna chiarire che cosa si intenda con il primo termine, verificando se tale sistematicità la offra sopratutto il programma informatico usato.
Importante interrogativo, cui si associa la questione dei dati, che riguarda da vicino la cosiddetta parte informativa del sistema stesso. Vale a dire, quali dati si raccolgono in un GIS e possono poi essere rappresentati?
Il ricercatore intanto diviene anche tecnologo e il cambiamento che i sistemi informativi geografici introducono non è sottovalutabile: con una buona padronanza del software, oltre agli strumenti hardware necessari, chiunque può costruire mappe e attivamente far parte di un GIS, poiché il lavoro di rilevazione dei dati e poi la vera e propria costituzione della carta lo compie la macchina computer.
Un GIS abbiamo detto seguire lo sviluppo tecnologico che oggi viviamo: chi se ne serve è esperto di un software e sembra ormai impossibile parlare di GIS in termini generici, essendosi questi specializzati e dovendo, chi se ne occupa, scegliere gli obbiettivi per cui di volta in volta sono nati. Interrogarsi se i Sistemi Informativi Geografici siano da intendersi unicamente come strumenti oppure occupino il centro di una nuova disciplina scientifica non fa che sottolineare la necessità di un approfondimento teorico, che certamente non ha tenuto il passo dell’evoluzione tecnologica.[6]
In questo senso va ribadito, prima di tutto, il carattere costruttivo del sistema geografico: si costruiscono carte per temi, tecnicamente distinguendo e sovrapponendo più livelli - layer - di informazione, contenenti i dati del mondo che oggi siamo in grado di catturare.
Si ripresenta quindi ineludibile il problema della natura dei dati, di ciò che può essere rilevato e poi rappresentato e di ciò che invece non lo è.
In particolare, con i GIS questione lampante è che loro punto di partenza non sono i dati, ma il sistema: l’assunzione dei dati in un sistema, altrimenti nel mare magnum delle informazioni di tipo geografico si finirebbe alla deriva.[7]
Ricordiamo allora che all’inizio del secolo scorso questa era la posizione teorica di Alfred Hettner, che sottolineava l’importanza del sistema nella determinazione dei criteri di scelta dei dati geografici; teoria ripresa e poi sviluppata nella sua pienezza da Richard Hartshorne[8].
Anche per i GIS bisogna quindi esplicitare una teoria che fonda il sistema, e nel caso il percorso pare di tipo induttivo: si prendono quei dati, cui chi usa il GIS attribuisce significato geografico, e con essi si costruisce il sistema.
Motivo di perplessità è dovuto al fatto che, poiché saranno elaborati al computer, i dati vengono ordinati secondo i loro attributi, in altre parole, sono concepiti come composti da, e scomponibili in, caratteristiche elementari.
Così si opera una chiara scelta di metodo, quella di procedere per via di analisi, di scomposizione, di divisione, e riemerge ancor più decisamente il problema di come attribuire significato ad un qualsiasi dato, risolto con l’assunto, comunissimo ai GIS, che per dare valore a un dato sia sufficiente una sua georeferenziazione, e conseguente moltiplicazione delle risorse passibili di inclusione in un sistema.
Qui appare in tutta la sua evidenza la necessità di una teoria, che invece viene elusa.

Come infatti stabilire che un dato abbia rilevanza, se non ricorrendo ad una teoria della geografia, ad una idea della terra?[9]
Tanto più che per i GIS, si parla di informazione e non di dato, e si impiegano strumenti digitali il cui risultato più immediato sarà l’accumulo di informazioni in database, l’altro polo costitutivo dei GIS.
La questione è spinosa, perché un GIS, oltre a disporre di un imponente apparato tecnologico, sembra avere tutti i requisiti per presentarsi come una teoria scientifica: si compone di rappresentazioni fatte all’insegna della esattezza visiva delle mappe, mira alla completezza dei dati che include, si definisce terminologicamente come un sistema ed ha uno spiccato carattere predittivo.
Andrà allora detto che, stando così le cose, tra i progenitori sul piano teorico degli odierni GIS, possono annoverarsi quegli studiosi che sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso scrissero una serie di contributi raccolti nell’importante Models in Geography, tra i quali spicca in apertura quello dei curatori dell’opera Richard Chorley e Peter Haggett, intitolato Models, Paradigms and the New Geography.
Essi non parlano di dati, né di fatti osservati ma di informazione derivabile dai fatti, inclusa in una teoria generale dell’informazione, la quale rende la realtà intelligibile in quanto la rivela come un sistema strutturato di connessioni, sottolineando che la semplice registrazione dei fatti non solo è insoddisfacente, poiché questi vanno sempre contestualizzati, ma anche impossibile, data la decisiva influenza dell’atteggiamento dell’osservatore su quanto è osservato[10].

Proviamo allora ad approfondire il confronto fra informazione e significato, nel tentativo di capire ciò che rende qualcosa significativo in un sistema di informazione geografico.
Abbiamo già constatato che in un GIS non si parla di dati ma di dati trasformati in informazione: prima operazione sospetta di arbitrarietà, quando non si chiarisce che si intende per dato e per informazione[11].
La questione tende a non affrontarsi, col ricorso alla sistematicità dell’informazione. Il sistema serve infatti per dare significato alle informazioni stabilendo, in questo caso, il grado della loro realtà: trattandosi di viste e mappe per un verso, e di database per l’altro, correlati per una rappresentazione del mondo, occorrerà valutare, di volta in volta, che cosa del mondo rappresentano, ricordando con Gödel che la coerenza interna di un sistema non è garante della sua realtà né può essere giudicata dal suo interno.
Allora, ripetiamo, si tratta perlopiù di tematismi, di mappe tematiche; si procede cioè per analisi, per suddivisioni, e quindi alla rielaborazione delle informazioni rappresentate, per poi agire sul mondo.
Tuttavia la scientificità dell’operazione la garantisce il sistema[12]: il sistema, l’aver raccolto informazioni in sistema, le rende scientificamente significative. Questo vuol dire che un GIS dovrebbe essere verificato in quanto è sistematico, proprio in quanto sistema, mentre tale operazione viene di regola trascurata fin dalla sua progettazione. Mentre è indubbio che con i GIS sia proliferata una manualistica acclusa ai vari software, che ne illustra l’uso.
Incontriamo qui il loro tipico aspetto pragmatico[13], passando dal piano della comprensione a quello dell’azione: un GIS bisogna saperlo usare, si può dire quel che si vuole, ma se non lo si usa, se non se ne conosce il software, perde molta della sua importanza.
Confrontiamolo allora con altri prodotti digitali dello tipo, per esempio con una banca dati di informazioni di carattere medico-scientifico. L’aspetto sistematico vale sicuramente pure per la banca dati, può non essere così pronunciato, ma una banca dati, anche al suo grado zero di raccolta, un qualche elemento comune, una qualche ricorrenza fra i dati che la compongono deve esplicitarla e su di essa fondare il principio informatore.
Per i GIS un principio informatore è senza dubbio costituito dalla visualizzazione dell’aspetto geografico dei dati che contiene, e dall’analisi delle loro relazioni: tanto che ci si è spinti a sintetizzare la storia dei GIS in un progressivo raffinamento delle tecniche di visualizzazione. Così che nei paesi di lingua anglosassone si parla di ViSc, di Scientific Visualization, come di una nuova disciplina, che indaga ciò che dei dati viene visualizzato e ha tra i maggiori obiettivi quello di aumentarne la conoscenza grazie all’analisi delle loro immagini e delle relazioni che sulle immagini si possono riconoscere.[14]
Eppure la relazione che si crea fra i vari elementi - geograficamente qualificati - del sistema è davvero problematica, potendosi considerare geografici una miriade di dati, di cui un fatto essenziale è spesso sottovalutato: la natura quantitativa ed esistente che ne assicura la rappresentabilità, in primis cartografica.
Bisogna allora ricordare che già a metà degli anni Sessanta del secolo scorso, si cominciò a parlare fra gli studiosi insistentemente di rivoluzione quantitativa in geografia, secondo un atteggiamento di ricerca comune a più geografi, nordamericani e inglesi soprattutto, che ha come caratteristica saliente di concentrarsi sui dati precisamente esprimibili in termini matematici e sulle relazioni spaziali suscettibili di analisi topologiche o geometriche. Tecniche di quantificazione, valga d'esempio il crescente impiego di dati statistici, e analisi geometriche, in gradi diversi tutte derivate dall'uso della carta geografica, senza problemi, e anzi vantaggiosamente, applicate al comportamento dell'uomo.
Uno dei maggiori meriti della geografia quantitativa, a detta dei propri sostenitori, starebbe infatti nel superamento della tradizionale divisione fra una geografia fisica e una umana, 'sulla base’, come con perplessità e interesse scriveva Giuseppe Dematteis, 'delle operazioni logiche che permettono di interpretare i diversi fenomeni.’[15]
Questo perché tali geografi giudicano esempio di attività scientifica discipline come la chimica o la fisica, le quali stabiliscono leggi universali grazie ad ipotesi empiricamente verificabili, e impiegano un tipo di ragionamento strettamente deduttivo, prossimo alle regole matematiche.
Secondo l'indirizzo da loro proposto, sulla strada per una geografia a statuto scientifico, starebbero tre fondamentali raggiungimenti:

  • La quantificazione dei fenomeni trattati, sia fisici che umani, e la loro traduzione in linguaggio matematico o geometrico.

  • L'uso di regole di inferenza di tipo logico deduttivo; e, su questa base:

  • La costituzione di teorie grazie a modelli di osservazione e rappresentazione della realtà.

Va però aggiunto che dopo la cosiddetta rivoluzione quantitativa - si veda per esempio quanto scriveva al riguardo Lerry J. King[16] - l’interesse di alcuni studiosi che a quella corrente di pensiero appartenevano si è progressivamente spostato dalla configurazione spaziale dei fenomeni di pertinenza geografica ai processi che quella configurazione producono.
Ricordiamo anche che per un geografo come Gunnar Olsson il punto di rottura rispetto alla tradizione di ricerca precedente è venuto con il riconoscimento che una stessa disposizione spaziale può essere causata da processi assolutamente diversi, e si prende coscienza che le analisi formali permettono risultati quando non arbitrari, solamente parziali.
Una delle ipotesi di Olsson, verificata col suo lavoro, è che le analisi matematico-geometriche compiute sulla base della rigorosa quantificazione dei dati sono rivelatrici, non tanto dei fenomeni che esaminano quanto del linguaggio in cui i fenomeni sono esaminati.[17]
Evidenziamo allora che tratto comune delle modellazioni digitali, cui i GIS puntano come ad una delle mete oggi conseguibili, è privilegiare la rappresentazione formale rispetto alla spiegazione diacronica dei fatti. E una delle conseguenze del formalismo è certamente la riduzione al presente di ciò che comprende. Formalismo e riduzione al presente della realtà fenomenica, a propria volta, rientrano a pieno titolo in quella corrente culturale che è stata definita neobarocco, un tratto duraturo, secondo più studiosi[18], del nostro tempo.
Peraltro è indubbio che una delle caratteristiche del mondo digitale è la convergenza di più media in uno stesso sistema, che tende quindi ad ibridarsi[19].
La questione del sistema nei GIS va affrontata esaminando quali linguaggi e codici vengono oggi usati per elaborare e rappresentare i dati e considerando quali media si privilegiano per compiere tali operazioni.
Innanzitutto i dati sono elaborati dal computer, quindi secondo una logica binaria: la macchina opera su di essi continuamente ricalcolandoli per poi rappresentarli in mappe.
Ma anche limitandoci ad una valutazione pratica di realizzabilità, nulla vieta, impiegando degli strumenti digitali, che in luogo delle carte siano altre le modalità della loro rappresentazione: in luogo, o a fianco, delle carte potrebbero esserci audio, video, documenti di testo, etc.
Quel che verrebbe radicalmente messa in discussione è la scelta del tipo di dati e della loro elaborazione.
Ci stiamo chiedendo perché in un GIS il trattamento di dati numerici - la possibilità di compiere continui calcoli con i risultati che ne derivano - sia giudicato estremamente informativo, tanto da sacrificare ad esso quasi tutto il resto.
Perché non giudicare altrettanto significativa l’opportunità che gli strumenti digitali offrono di affiancare ad una mappa di una zona di una città con relativi dati - raccolti nel corrispondente database - foto, audio, filmati, testi verbali, e quant’altro, con le proprie caratteristiche, che lo studioso combinerà e presenterà nei modi che giudica più appropriati?
Detto altrimenti, il problema che i GIS saltano a piè pari è quello della rappresentazione del livello non visibile. Di ciò che, per natura, non si vede e non si può quantificare e quindi non esiste ma sussiste.
Nonostante questo essi funzionano perché offrono uno sguardo d’insieme sui dati rilevati. Un colpo d’occhio simultaneo[20]. Così suggestivi perché raccolgono tutto attorno ad una mappa e quindi valgono come strumenti operativi, a propria volta condizionati da mezzi che assicurano precisione, comunicabilità, anche una spettacolarità, che ne sta facendo la fortuna presso il grande pubblico.
Godono del fascino della certezza che esercita la conoscenza scientifica normalizzata, la conoscenza pronta ad agire.
La prima domanda da farsi qui è allora che parte ha l’uomo nei sistemi di informazione geografica, che parte hanno le informazioni che riguardano l’uomo, e se esso è sistematicamente dimenticato occorrerà spiegarne ragioni e conseguenze.
Oggi quando un GIS viene presentato e pubblicizzato si sente spesso dire che permette di modellare il mondo, intendendo con questa espressione una simulazione di vari scenari ad esso riferiti, a partire dalle rappresentazioni che il software con i dati raccolti produce.
Si capisce quanto più difficile il discorso si faccia nel caso di modellazione del comportamento umano, nella rappresentazione dovendo comprendersi elementi che solo fisici non sono e tanto meno avendo senso limitarsi a ciò che è visualizzabile: ci si dovrebbe accontentare di rappresentare gli effetti e risultati di un operare, quello dell’uomo, le cui ragioni rimarrebbero inesplorate quando prive di una relazione visibile con ciò che ha rilevanza geografica.
Qui è la carta, digitale o meno, inserita o meno in un sistema di informazione geografico, e la sua logica, ad entrare in crisi[21]. A servire a poco.
Una chiara spia del fatto che la “variabile” uomo nei sistemi di informazione geografica è trascurata la segnala la terminologia: si parla di informazione e non di significato, passando sotto silenzio quel linguaggio naturale, grazie al quale una informazione viene dotata di significati appunto umani.
E questi significati saranno i distintivi dell’uomo.

Quali sono dunque le condizioni pratiche, di concettualizzazione e infine espressive che i GIS creano? Ed è giustificato pensare alle carte digitali come altre rispetto alle cartacee?
Intanto un grosso problema che certamente deve risolvere tanto la mappa quanto l’immagine satellitare oggi tanto sfruttata è quello della scelta e selezione dei dati, il satellite stesso non riprendendo tutto e la carta non facendo altro che stigmatizzare questo aspetto.
Ma ancor prima sta la questione della rappresentabilità di ciò che viene rappresentato: la terra, e il mondo, non è semplicemente la sua immagine, non è soltanto ciò che di essa si vede[22].
Tanto più che con gli ultimi sviluppi, i GIS mirano ad una modellazione del mondo ma non a modellare il mondo comprendendo i nostri modi di pensarlo. Questo è cruciale, perché certamente i modelli del mondo che i GIS realizzano influiscono sui nostri pensieri e azioni sul mondo.
Occorre cioè riconoscere quali categorie di volta in volta usiamo: soprattutto essere consapevoli delle differenze fra pensiero e azione[23], fra categorie del pensare e dell’agire e nello specifico, visto che di mappe e di immagini satellitari del mondo si sta parlando, della inferenza geografica[24] che ne deriva. E dell’uso che facciamo delle mappe, archetipo della rappresentazione della conoscenza.
Se un punto di arrivo delle analisi che i GIS consentono è la modellazione di stati del mondo per poi intervenire su di esso con un’opera per esempio di pianificazione territoriale, gli aspetti etici - in una parola gli ideali che guidano l’azione - di chi li usa non possono davvero trascurarsi e dovrebbero essere esplicitati fin nella progettazione del software.
La stessa idea di sapere scientifico ha implicazioni etiche da tempo riconosciute[25], che si ingigantiscono quando passiamo dalla comprensione all’azione. E’ ingenuo, nel caso dei GIS, caricare questa azione di significati sconvolgenti che non ha; tuttavia operare con i GIS comporta dei cambiamenti nel rapporto degli uomini con la terra e nelle relazioni fra uomini e uomini.
Sono questi cambiamenti e queste relazioni che una rappresentazione del mondo dovrebbe far emergere e farli emergere è un compito della geografia, sapere originario.
Rispetto alla tradizione geografica, qui si sta affacciando la questione della differenza fra scienze idiografiche e nomotetiche[26], che introduce una domanda decisiva per il nostro discorso: possono i GIS essere usati per rappresentare fenomeni antropici e non soltanto fisici, per rappresentare non solo fenomeni fisici ma anche rapporti sociali, una volta accettata una teoria della terra, e a maggior ragione del territorio, che comprende gli uni e gli altri?

Abbiamo detto trattarsi, con i GIS, essenzialmente di mappe tematiche che si accompagnano a tabelle, inserite nel database, che articolano le caratteristiche degli elementi rappresentati tanto che codici diversi si ibridano. Nel senso che, ad una mappa tematica, per esempio quella che visualizza la distribuzione idrica di una regione, che ha tutte le proprietà di una mappa cartacea, si affiancano con il database e grazie alla tabella i dati elaborabili che essa presenta.
Guardiamo allora al database[27] e chiedendoci se la disposizione dei dati che contiene risponde ad una qualche logica spaziale, di nuovo capovolgendo i termini della questione.
Se la mappa per le sue caratteristiche può rendere visibili le relazioni spaziali degli elementi che rappresenta, qual è la disposizione spaziale degli elementi nel database e ancor prima quali sono le caratteristiche spaziali del database stesso?
Diremo, sintetizzando, che un database si compone di tabelle, a propria volta costituite dall’intersezione di colonne e righe, a formare rispettivamente in verticale dei campi e in orizzontale dei record.

Campo

Campo

Campo

Campo

Record

Record

Record

Record

L’intersezione di colonne e righe dà origine all’elemento replicabile in tabella, vale a dire la cella. Che sia la cella, il riquadro, l’elemento costitutivo fondamentale lo dimostra il fatto che nella prima riga, quella che designa le “entità” - di solito gli attributi che si assegnano a qualcosa - riportate in ciascuna colonna, non si dà alcuna ragione per cui le stesse colonne siano legate l’una all’altra a formare in orizzontale, con i record, una riga unica.

Identificativo

Colore

Forma

Unità di misura

La ragione della loro unificazione stando infatti nel loro allineamento, sancito dall’inquadratura in tabella. Questa norma dispositiva richiama il rettangolo intemporale di Foucault e che questo sia di natura cartografica è stato già scritto.[28]
Regola fondamentale perché il database possa funzionare è che tutti i record siano riempiti di un qualche valore non ammettendo alcuno spazio vuoto, vanno cioè come si dice “formattati”. Uno spazio dunque continuo come quello della carta geografica.


Identificativo

Colore

Unità di misura

1

Rosso

metri

2

Verde

quadrato

3

miglia

4

Blu

rettangolo

kilometri


Identificativo

Colore

Forma

Unità di misura

1

Rosso

cerchio

metri

2

verde

quadrato

ettari

3

giallo

triangolo

miglia

4

blu

rettangolo

kilometri

Nota: per comodità riportiamo una vista “esterna” del database, però precisando che il nostro discorso si riferisce al modello concettuale che presiede alla sua ideazione; gli esempi vanno interpretati con questa avvertenza.

Di nuovo: se guardiamo alla tabella non è ammissibile che poniamo la riga 1 con i rispettivi record sia composta da 2 colonne, la 2 e la 3 da 4 e la 4 di nuovo da 2. In questo caso avremmo una tabella incompleta, non più tale, almeno per come le tabelle dei database oggi sono ideate. Lo spazio della tabella è quindi omogeneo, esattamente come quello della carta geografica.[29]


Identificativo

Colore

Forma

Unità di misura

1

rosso

2

verde

quadrato

ettari

3

giallo

triangolo

miglia

4

blu


Identificativo

Colore

Forma

Unità di misura

1

rosso

cerchio

metri

2

verde

quadrato

ettari

3

giallo

triangolo

miglia

4

blu

rettangolo

kilometri

Riflettiamo poi sul perché ritroviamo in tabella dei rettangoli e non per esempio dei quadrati:
se avessimo dei quadrati l’orientamento della tabella sarebbe indecidibile, il quadrato capovolgibile a piacere senza alcuna variazione, poiché tutti i lati che lo costituiscono uguali e la direzione istituita da una differenza che qui non c’è. Poiché invece il rettangolo risulta formato da lati di grandezza diversa, esso si orienta diversamente a seconda della loro disposizione.


Identificativo

Colore

Forma

Unità di misura

1

rosso

cerchio

metri

2

verde

quadrato

ettari

3

giallo

triangolo

miglia

4

blu

rettangolo

kilometri


Disposizione dei rettangoli in tabella che, quando si tratta di database, è unidirezionale: lo spazio risulta cioè isotropico, volto tutto nello stesso verso secondo un solo centro, proprio come quello della carta geografica.
Dunque continuità, omogeneità e isotropismo.
Ma qual è la disposizione spaziale degli elementi in tabella, stando attenti che oggi abbiamo a che fare con database relazionali, pensati perché ciascun record sia collegato a tutti gli altri, così da consentire all’elaboratore ricerche e calcoli condizionati.
Guardando alle colonne possiamo dire che ad uno stesso attributo corrispondono identificativi diversi; in altri termini che una stessa caratteristica viene assegnata a cose diverse, che qui per comodità riportiamo con numeri.

In tabella dunque:


Identificativo

Colore

Forma

Unità di misura

1

1

2

2

3

3

4

4

Guardando invece alle righe, scopriamo che ad uno stesso identificativo corrispondono attributi diversi; vale a dire che una stessa cosa ha caratteristiche diverse.
In tabella, usando ancora i numeri per identificativi:


Identificativo

Colore

Forma

Unità di misura

1

1

1

1

2

2

2

2

Visualizzando nella stessa tabella il risultato dei due procedimenti, ecco la disposizione spaziale che compare:


Identificativo

Colore

Forma

Unità di misura

               1


1

1

1

2

2

2

2

3

3

3

3

4

4

4

4

5

5

5

5

A mio parere questo è un ricalco del modello spaziale della città ippodamea, in cui il centro perde significato e si standardizza invece la distanza fra i cittadini, quel modello che trasforma “la città in una tavola di informazione” e il cui vantaggio consiste nella velocità di trasmissione di quest’ultima[30].
Se il ritornello che presenta i GIS li vuole progettati per l’elaborazione dei dati, questi sono, una volta elaborati, tradotti in mappe, nel solco della tradizione geografica che privilegia la carta e il senso della vista; per quanto riguarda invece la loro analisi, essi non solo sono stati preliminarmente quantificati ma anche, quando ordinati in database, elaborati per la facilità e velocità di trasmissione dell’informazione. Non riconoscendo fra loro, stiamo parlando di disposizione spaziale, alcuna gerarchia.[31]

Può il database funzionare a prescindere dalla disposizione spaziale dei dati?
Ci siamo sforzati di chiarire qual è la disposizione spaziale degli odierni database e quali le principali implicazioni, aggiungendo che è l’aver stabilito uno spazio continuo, omogeneo, isotropico ed infinito a farli funzionare.
La vera novità dei GIS, se c’è, non va certo cercata nei database e neppure nelle capacità di calcolo dell’elaboratore: non ci si può accontentare che sia la macchina a raccogliere, ordinare e poi relazionare dati e nemmeno limitare alla combinatoria di elementi, che la macchina ricalcola e infine, a concludere il processo, visualizza.
Questo lavoro è il computer a compierlo e il software che lo fa funzionare, con le potenzialità e i limiti che caratterizzano entrambi[32].
Il nuovo va invece cercato nella possibilità di affiancare al codice della mappa, linguaggi questa volta, e non codici, diversi: primo fra tutti quello alfabetico, con tutta la dinamicità e flessibilità e sfumature che gli sono proprie.
Non semplicemente una qualche attribuzione aggiuntiva in tabella agli elementi rappresentati, ma il riconoscimento del linguaggio verbale come forma espressiva dell’uomo e come possibilità di espressione del mondo cui appartiene.
Un rivolgimento completo: non la primazia delle mappe, e della loro logica, ma la loro integrazione a una risorsa che quella logica assolutamente non segue.
Occorre quindi stabilire per i GIS se accettabile una teoria in cui coesistono modi di descrizione e rappresentazione del mondo così diversi, se possono mappe e, prima di tutto, linguaggio alfabetico integrarsi nello stesso sistema.[33]
Sembra fin troppo facile rifiutare una loro reciproca esclusione, eppure nei GIS, del linguaggio verbale non si fa quasi mai menzione quale, ripetiamo, strumento di analisi, e ancor prima, di espressione di quei rapporti che una mappa non è in grado di rappresentare perché rimandano ad un livello non visualizzabile in quanto per esempio indeterminato o incerto. [34]
Dilagano invece le mappe digitali, che ancora una volta, già dalla terminologia segnalano una posizione teorica ben precisa nella tradizione geografica.
Digitale in italiano traduce l’inglese digit che significa numerico: nel 1963 il geografo americano William Bunge pubblicava un libro intitolato Theoretical Geography , in cui assegnava alla matematica il ruolo di "Medium più ampio e più flessibile per la geografia"; e come, nel ritrarre le proprietà spaziali degli oggetti, "le premappe", che comprendono "fotografie, immagini, grafici e linguaggio sono una sottoserie delle mappe", così "le mappe sono una sottoserie della matematica."[35]
Ad esplicitare che l'utilizzo del linguaggio verbale non era assolutamente preso in considerazione quando sono proposti quelli che dovrebbero essere i fondamenti di una rinnovata geografia, tanto più taciuto se si trattano le decisive questioni della determinazione dei dati di base di interesse geografico, come fossero esclusivamente i prestabiliti dalle mappe, o se si considera la corrispondenza fra rappresentazione cartografica e effettiva realtà cartografata, per la quale si rimanda banalmente alla chiave di lettura offerta dalle illustrazioni preposte ad alcuni atlanti, mentre se il linguaggio verbale viene passato in esame è solo per denunciarne l'inadeguatezza in selezione, logica e completezza a paragone di ciò che mappe e matematica assicurano[36] .
La così netta scelta teorica di Bunge è la scelta pratica, consapevole o meno, di chi oggi usa i GIS come strumento principe per l’analisi geografica e poi la pianificazione territoriale, attribuendo ad essi quella scientificità che l’esattezza delle mappe e dei linguaggi di stampo matematico intendono garantire. E lo stesso discorso vale quando l’utente finale del sistema è il cittadino, quando il GIS ha funzione eminentemente di comunicazione informativa[37].

Facciamo di nuovo un confronto, questa volta con un programma che in rete sta riscuotendo successo, Google Earth: con questo software, del resto già integrato ai più importanti GIS, si assiste ad una ripresa satellitare, con copertura dell’intero globo, periodicamente aggiornata, che suggerisce per certi versi l’inutilità delle mappe, superandole, poiché vediamo il globo terrestre senza bisogno di una sua rappresentazione sulla carta geografica.
Disponendo di un’immagine reale della terra, perché ricorrere ad una mappa?
Certamente la mappa opera una selezione dei dati da rappresentare. Ed usa un codice suo per formalizzarli e comunicarli, trasformandoli in qualcosa che abbia senso, secondo le operazioni che noi seguiamo quando la guardiamo.
Con la ripresa da satellite non si rappresenta, non si ricostruisce, ma si vede la terra, alla lettera si ha una visione della terra.
Il fatto è però che la terra semplicemente non si vede: vediamo attraverso una macchina e vediamo quel che la macchina rileva. Ma soprattutto, indipendentemente dalla attrezzatura tecnologica, la terra senza distinzioni è irriconoscibile e tanto più il globo terrestre che per la sua forma materiale e movimento non può abbracciarsi con lo sguardo tutto in una volta e nello stesso tempo.
Sullo sfondo si profila l’interrogativo circa che cosa intendere per terra quando con un’immagine satellitare la “vediamo”; si tratterebbe intanto di stabilire quale rilevanza geografica abbia questa visione del mondo mediata da uno strumento tecnologico, che oggi nella maggioranza dei casi è il satellite.
A dispetto di tutti i progressi fatti, qui il problema è ancora quello di Anassimandro[38], di colui che per primo fissò sulla carta la terra conosciuta: il problema è che la terra è viva e questa pienezza nessuna immagine può verosimilmente riprodurla; tanto più riprodurla in termini geografici, con questo intendendo una descrizione mirante alla completezza, alla sistematicità, all’unità.
E tuttavia questa tensione all’unità pare la strategia privilegiata per concepire ciò che ha significato geografico, come anche il caso dei GIS dimostra.
Con questi, il passo avanti sta nella esattezza e completezza e frequenza delle rilevazioni satellitari, e immagini e carte e informazioni che ne derivano e non è poco. Tuttavia di immagini della terra stiamo parlando, non della terra e per questo occorre finalmente affrontare la questione dell’uso che oggi di queste immagini il geografo come l’epistemologo fa.

Chi usa un GIS oggi non è di solito un cartografo di professione, eppure proprio perché esperto di Sistemi Informativi Territoriali conosce un software specifico, con il quale è in grado di costruire mappe. L’aspetto pragmatico della realizzazione si è automatizzato e oggi il mondo, nel suo aspetto meramente fisico, si può dire completamente cartografato.
Ripetiamo che le mappe si sono specializzate per singoli obbiettivi e la mappatura del terra serve verosimilmente per poi agire su di essa, trasformandola in territorio oppure, quando di territorio già si tratta, monitorandola e anche informando il cittadino del suo stato, per trasformarla ulteriormente.
Ci si interroga qui circa lo spazio lasciato in un GIS alla visione del mondo come dovrebbe essere da parte di chi lo usa.
Con lo sviluppo digitale e della rete una chiara novità sta nei molti risvolti di tipo etico che questo ha portato con sé. Vale a dire, computer e rete internet nascono per l’elaborazione e poi condivisione di conoscenze[39], lo sviluppo tecnologico puntando in questo senso alla diffusione dell’informazione a favore dei molti.
Rigettando un ingenuo determinismo, è però indubbio che da più parti si è arrivati a ridiscutere perfino i termini della questione circa il modello di democrazia cui la civiltà occidentale più si richiama: la democrazia ateniese del V secolo e ancor prima l’ideale isonomico dell’assemblea dei guerrieri cui questa si ispira[40].
Per cui garanzia non sufficiente risulterebbe l’uguale diritto di parola e di voto nell’assemblea, prima venendo quella dell’accesso all’informazione, la possibilità di raggiungere le fonti della conoscenza per poi parlare efficacemente e consapevolmente[41].
Qui segnalando il rischio di sovrapporre categorie proprie del nostro tempo a quelle del periodo storico preso a modello, ci limitiamo a stabilire un altro punto fermo[42].
Da una parte, sono stati fatti molti tentativi per coinvolgere intere comunità civiche nell’uso di un GIS, ad esempio per la pianificazione del territorio che esse abitano.[43] Dall’altro, c’è chi[44] sostiene impossibile stabilire responsabilità per chi si serve di un GIS, in considerazione della sua complessità fatta di hardware e software, dei dati raccolti e dei codici che li elaborano, etc.
Ribadiremo che l’opportunità di partecipare attivamente ad un progetto, grazie ad un GIS, si scontra prima di tutto con la difficoltà di far entrare nel sistema le intenzioni dei partecipanti: la maggiore partecipazione non può certo crearla un apparato tecnologico che opera poi privilegiando soltanto quegli aspetti della realtà che risultano esistere.
Nel caso può aumentare il senso di appartenenza delle comunità coinvolte[45] ma ben poco servire alle loro scelte, se si limita alla rappresentazione di scenari futuri sulla base della registrazione della situazione presente, così escludendo dal sistema proprio quei criteri deontologici che valgono a stabilire la bontà o meno di un progetto.
E di più sfuggono all’analisi le caratteristiche proprie dell’azione umana: aspetto tanto più critico se pensiamo che i GIS non nascono certo per condividere conoscenze, anzi risultando al servizio di istituzioni statali e militari che fanno del controllo del territorio e della segretezza delle informazioni una regola di condotta.
Quel che sembra invece davvero di buon auspicio è che interrogarsi sui modi di partecipazione di una comunità ai processi territoriali che la riguardano ha portato alla riscoperta delle sue caratteristiche locali e delle stesse diversificazioni al suo interno.
Le ragioni della omogeneità spaziale lasciano il posto, in questo caso, alle specificità e individualità dei partecipanti, che hanno finalmente modo di esplicitarsi.



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