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CITTADINANZA EUROPEA

Cittadinanza europea, cittadinanza universale

Intervista al senatore Francesco Cossiga

di Gianluca Torrini
21 Giugno 2004

Senatore Cossiga, il suo nome è stato spesso accostato al concetto di cittadinanza universale. In che rapporto sta l’idea di cittadinanza universale con la più nota cittadinanza nazionale e la costituenda cittadinanza europea e come interagiscono?

Francesco Cossiga

Parto da una considerazione di tutt’altro genere che riguarda quello che sembra un problema contingente e proprio del nostro Paese, cioè l’immigrazione. Sono convinto che questa immigrazione sia un fenomeno molto più significativo e vasto che non la conseguenza della sola ricerca, da parte dell’immigrato, di una condizione socio-economica migliore rispetto a quella di provenienza.

Va anzitutto chiarito che dall’immigrazione clandestina “non ci si può, né ci si vuol difendere”. Come prima cosa, infatti, per impedirla bisognerebbe usare metodi dissuasivi, come alimentare la paura di un danno provocato dall’ingresso di immigrati nel nostro Paese. Secondariamente, non possiamo non considerare il fatto che il nostro Paese è, ormai stabilmente, caratterizzato da un alto tasso di denatalità, da uno sviluppo economico notevole e da una promozione delle classi sociali tale che sono moltissimi i lavori che gli italiani non intendono fare; lavori, però, che sono del tutto funzionali allo sviluppo economico nazionale: penso alla raccolta dei pomodori, delle patate ecc… Questo stato di cose determina il flusso immigratorio e, mi pare di poter dire, siamo di fronte ad un fenomeno di lunga durata, come a suo tempo furono quelle invasioni barbariche che, poi, hanno così profondamente contribuito allo sviluppo dell’Europa.

Del resto non dimentichiamoci, come disse Mitterrand, che la data di fondazione dell’Europa fu la notte di Natale dell’anno 800; che Carlo Magno non è un latino originario, ma, appunto, un barbaro perché germanico, appartenente alla famiglia dei Franchi. Il fenomeno dell’invasione dei barbari fece dire a Papa Gregorio: “Passiamo dai barbari”.

 Parlamento europeo | Immagine tratta da DIA fornita da Olycom

Cos’ è che inquina il processo di integrazione provocato dall’immigrazione?

Quello che oggi è particolarmente preoccupante è il terrorismo. Non può non essere significativo il fatto che, in un momento della storia, scoppino contemporaneamente più focolai di ‘terrorismo delle azioni’ (Al Qaeda, Afghanistan, Palestina, Algeria…) e di 'terrorismo delle idee': il Primo Ministro indonesiano si è lanciato in una dura polemica e una condanna senza appello dell’Ebraismo e del Cristianesimo. Siamo di fronte ad una ripresa dell’Islam: le civiltà dormono, ritornano. Noi dimentichiamo o ignoriamo che cosa sia stata la civiltà islamica. Ora, sia che uno sia vichiano o che non lo sia, questa ondata di violenza chiede di essere compresa. L’Islam è la religione del 'monismo', non distingue il politico dal religioso e dal culturale. Questo 'tutt’uno' è il problema o meglio la differenza con le altre religioni.

Qui interviene l’insegnamento di Papa Giovanni Paolo II e quella normatività che recita: “Dio creò la terra e la diede a tutti gli uomini. Ciascuno è cittadino del mondo”. A questo punto, il problema non è più quello delle quote e del diritto, ma quello di come gestire il fenomeno culturale e politico dell’immigrazione. Un fenomeno che, lo ribadisco, ha a che fare con ciò che accadde con Germani, Normanni, Longobardi, Sassoni.

Come è possibile, quindi, rielaborare sia gli insegnamenti storici che le problematiche attuali per costituire la nuova cittadinanza universale?

Bisogna 'mettere insieme' ciò che delle diverse nazionalità ha valenza universale, fino a poter dire che non si può essere tedeschi senza essere francesi, francesi senza essere inglesi e così via. Per fare questo, occorre avere un senso forte della propria identità e comprendere qual è l’universalità della propria identità. Dante è un grande poeta italiano, ma è un grande poeta perché è un grande poeta universale. Occorre riacquistare il senso della propria identità per cogliere quella che è l’apertura universale della propria identità.

I giovani e la guerra, i giovani e i movimenti pacifisti: quali sono le differenze profonde rispetto a quanti, agli albori della UE, avevano stampate sulla propria memoria le ferite di due crudeli guerre mondiali? L’Europa è nata sotto il segno di “Mai più la guerra”; che cosa può significare questo segno identitario per giovani che hanno vissuto 60 anni ininterrotti di pace?

La prima comunità è nata quando Schuman si chiese: “No alla guerra, ma come?”. La risposta fu: "Mettiamo insieme gli interessi delle armi". Fu così che nacque la Comunità del Carbone e dell'Acciaio. (Leggi il trattato)

Cioè la Comunità dei cannoni!

Fu così che Francia e Germania, i primi soggetti impegnati in guerra in Europa, hanno deciso di mettere insieme le materie prime per fare le armi.

La Comunità del Carbone e dell’Acciaio è stato il primo passo concreto, ma quale fu la decisione politica fondativa dalla quale hanno preso le mosse le successive e preventive strategie per mantenere così incredibilmente a lungo la pace sul territorio europeo?

Yalta. Dopo Yalta non fu più possibile fare la guerra.

In che senso? 

Fu grazie a Stalin, Churchill e Roosevelt i quali capirono che si poteva mantenere la pace solo dividendo il mondo in due parti. Entrambi i popoli si sono abituati alla pace, una parte al caro prezzo di rinunciare alla libertà in cambio proprio della pace e della sopravvivenza. Non a caso la fine dei due blocchi e la caduta del Muro di Berlino hanno visto lo scoppio di guerre in quelle zone del mondo che si erano divise i due grandi, o che i grandi governavano assieme.

Oggi che il mondo non è più diviso in due, su che cosa si fonderà la pace?

Oltrelosguardo | immagine concessa da Tommaso Cambi   Bisognerà trovare una nuova forma di governo mondiale e una nuova forma di egemonia. Mentre sul piano delle persone si può affermare una tendenziale eguaglianza, anche se poi le disuguaglianze persistono, questo è impossibile pensarlo sul piano degli stati. Pensare all’eguaglianza tra gli stati è una cosa assurda perché il peso degli stati è dato dalla ricchezza, dalla vastità, dalla posizione geografica ecc… e quindi una società internazionale dovrà combinare la parità, intesa come riconoscimento e diritto ad un eguale rispetto, con il diritto al governo della comunità che non può essere di eguali.

All’interno dei più diversi campi disciplinari, c’è un gran fiorire di metodiche della composizione dei conflitti:  una sorta di tecnicismo che sembra ‘significare’ qualcosa di profondo.

L’ipertecnica in questi ambiti è stata molto importante e sta incidendo perfino su una cosa che sembra lontana dalla pace, cioè sull’organizzazione delle forze armate e sulla elaborazione delle strategie e delle tattiche. I Paesi si stanno dotando sempre più di forze armate non per i grandi conflitti mondiali, ma per prevenire o gestire un conflitto: peace keeping, peace enforcing. Qui sta il grande problema dell’attività umanitaria, che deve essere collegata con l’attività di polizia internazionale. Non è più una guerra, è un’attività di polizia internazionale. Dove c’è il conflitto, non c’è più la guerra. 

Le nuove generazioni, allontanandosi dalla percezione quasi fisica, direi istintiva, dei dolori e dei drammi della guerra, su quali basi  possono immaginare di gestire i conflitti prevenendoli?

Il pacifismo basato sulla convinzione che sia possibile eliminare i conflitti è pericolosissimo.

Il pacifismo vero è quello che si pone la pace come fine ma che, essendo realista, sa che è proprio dell’uomo confliggere con l’altro uomo, il partito con l’altro partito, la tribù con la tribù, e dunque cerca metodi di prevenzione o di gestione dei conflitti senza il ricorso alla guerra.

Lei è stato sempre molto attento al 'comune sentire' dei giovani: come interpreta il loro sentirsi più cittadini del mondo che cittadini europei?

In realtà, al di là dei grandi europeisti alla Schuman, chi ha dato spazio all’idea di Europa è stata l’esigenza di fuggire da un senso di nazionalità sconfitta. Si è venuto a creare uno spazio europeo -non americano- per cui con ‘Europa’ si è intesa l’Europa occidentale; in Europa ci si è sentiti più occidentali che europei. In Europa c’è stata la fuga da un senso di nazionalità che dava fastidio perché era colpevolizzata. L’italiano e il tedesco, che si sentivano sconfitti, trovarono la loro consolazione nel dire “noi siamo europei” Adesso, i giovani sentono di più, anche se loro non lo sanno, l’essere occidentali che l’essere europei. E’ venuto meno il romanticismo europeo. Il vero problema delle radici e della identità dell’Europa è quello di ciò che l’Europa significhi.

L’Europa, nel medioevo, era una comunità di spiriti eletti: Erasmo da Rotterdam si sentiva a casa sua a Londra come a Lovanio; S. Tommaso Moro, ad Oxford come nei Paesi Bassi. Carlo V, fiammingo di nascita, fu imperatore d’Austria e re di Spagna.

Vietnam, sorrisi sul Mekong | immagine concessa da Tommaso Cambi Quale identità culturale, oggi? Quando io parlo di cultura supero l’identificazione religiosa e intendo che - in uno stato laico - ogni religione produce cultura. Prendiamo il caso degli ebrei: quanti sono gli ebrei di cultura ebraica che sono non credenti, se non addirittura atei?

L’Europa di oggi è stata troppo identificata (anche dalla stampa) con l’euro, i mercati, il libero scambio, tutti i “pasticci” legati alla costituzione. Se un ragazzo oggi legge la Costituzione della Repubblica Francese o la Costituzione degli Stati Uniti sente un palpito che non avverte affatto se legge i trattati europei. Per un giovane è più attuale la cittadinanza del mondo che quella europea perché la cittadinanza europea, noi, la stiamo costruendo; la cittadinanza europea è una cosa diversa da tutti gli altri modelli di cittadinanza. La cittadinanza universale è basata sull’umanità, le altre cittadinanze sono basate sulla nazionalità, ma l’Europa non è una nazione.

Editing di Gianluca Torrini - redazione webzine, Indire.

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