di Marisa Trigari
17 Dicembre 2004
Più che di storiografia digitale, oggi, si dovrebbe parlare di storiografia
che usa fonti digitali. Quel che il Web invece consentirebbe di presentare nella
scrittura storiografica è l’intera sceneggiatura (leggi l'articolo in una forma diversa).
Che cosa
cambia infatti nell'era digitale per il lavoro dello storico,
nella costruzione e ricezione del testo storiografico? Che cosa cambia nella
conservazione e disponibilità delle fonti? Infine che cosa cambia nella stessa
natura delle fonti storiche primarie?
Questi gli interrogativi chiave del volume curato da Dario Ragazzini, che
sintetizza e in parte sviluppa i termini di un dibattito più che decennale che
coinvolge punti di vista diversi, ma interconnessi: quello dello storico, dello
specialista dell’informazione nel settore, dell’archivista, infine dell’esperto
di una fonte non convenzionale quale quella fotografica.
Viene spontaneo confrontare questo lavoro con quello curato da S. Soldani e
L. Tomassini, Storia e computer nel 1996, in margine ad un
Convegno del 1994 tenutosi all’Università di Firenze, lo stesso contesto
culturale in cui oggi il tema è riproposto. Colpisce, a otto anni di
distanza, una riproposizione dei problemi in termini molto simili,
nonostante la crescita esponenziale dell’accesso al web, la riduzione del
digital divide, la proliferazione di archivi full text,
l’ingresso nei corsi universitari di cattedre di informatica umanistica con
diverse denominazioni , il complicarsi del dibattito sul web semantico, la
problematica aperta sui modi di rendere visibili ai motori di ricerca il web
profondo, la ricerca sui metadata, e altro ancora.
Le dimensioni quantitative del problema si sono dilatate, l’attenzione si è
spostata decisamente da banche dati su CD al disponibile in Internet;
appare superata, come già appariva allora, la diatriba tra gli
anni '70 e '80 sulle opportunità del computer e delle fonti
digitalizzate per la storia quantitativa piuttosto che per la storia qualitativa
(uso dell’analisi testuale e del linkage per ricerche più sofisticate e
meno soggette ai modelli delle scienze statistiche), ma tutti gli
interrogativi concernenti il rapporto con le fonti si ripropongono quasi
invariati, mentre ancora troppo aurorale sembra il dibattito su di
un punto chiave: lo specifico di una scrittura/lettura storiografica sul
web. Eppure L’historien et l’ordinateur di Le Roy Ladurie è
del 1973, e – più specificamente – di storiografia e Internet si discute da
almeno dieci anni. E’ come se il rilancio quantitativo continuamente riproposto
dal mezzo costringesse a inseguire nuovi aspetti dei vecchi problemi, che
continuano ad apparire “in una fase di prima configurazione...”
(Ragazzini, p.15), mentre stenta a diffondersi – ma questa non è certo
responsabilità del web – una pratica scientifica, sia pure sperimentale, di uso
del nuovo mezzo per rappresentare in modo inedito i risultati della ricerca
storica. Ancora oggi, più che di storiografia digitale, si dovrebbe parlare di
storiografia che usa fonti digitali, cosa che non è la stessa
cosa.
Nel primo saggio di Dario Ragazzini Le fonti storiche nell’epoca della
loro riproducibilità informatica è proprio il tema di una nuova
scrittura/lettura storiografica, già posto da Tommaso Detti e Peppino Ortoleva
nel ’96, a costituire la parte importante dell’argomentazione. Riprendendo
un discorso sviluppato in Dal documento alla documentazione (2001),
l’A. riflette sulla fonte storica, con livelli
diversi di significati contestuali e relazioni multiple, autentico luogo di
incontro dello storico. In quest’incontro, che è individuazione di
contesti, selezione, assegnazione di senso, interpretazione, si determina
quell’accertamento che è conditio sine qua non dello
statuto della disciplina, sia essa digitale o no.
Ma c’è una cesura tra processo di ricerca e comunicazione dei risultati. La
ricerca è operazione aperta, multirelazionale e multilivello per
eccellenza, tuttavia nel momento in cui definisce una tesi, traccia una
linea dimostrativa, stila e presenta le conclusioni della sua ricerca,
lo storico elabora un testo sequenziale (ma non per questo
concettualmente monolineare) che è di fatto la punta di un iceberg, in
cui l’insieme complesso delle fonti di riferimento è rappresentato solo a titolo
esemplificativo. Il lettore certamente può rifare il percorso,
ha indizi ed indirizzi, ma la reperibilità delle fonti è generalmente
così onerosa, che questo lavoro di verifica e potenziale ricostruzione
alternativa è riservato solo a pochi membri della consorteria professionale.
Ebbene, il web consente potenzialmente di presentare
nella scrittura storiografica l’intera sceneggiatura - di ‘montaggio’
parlava P. Ortoleva nel 1996 - che dà ragione del percorso selezionato,
rendendo immediatamente possibile, attraverso un sistema di link, non
solo una verifica sulla serie completa delle fonti disponibili, non solo la
considerazione di strade alternative non percorse o solo parzialmente percorse,
ma anche la costruzione personale di percorsi differenti.
Acutamente l’A. osserva che mostrare la ‘macchina’ da cui
nasce il testo storiografico significa molto di più che dare semplicemente
accesso alle fonti di riferimento, significa dare ragione
dell’ingegneria dell’intera costruzione, del metodo e – per lo storico
stesso – favorire una maggiore formalizzazione del suo lavoro,
premessa – forse – di una futura cumulabilità di ricerche che
si integrano fra loro, un laboratorio collettivo ispirato a criteri di larga
interoperabilità. Significa anche necessariamente – nell’ambito di una
storiografia che unirà sintesi critiche, data base funzionali e strumenti di
indagine (p.32) – un inglobamento di nuove professionalità nel
laboratorio dello storico, quali quelle del documentalista e del
tecnico dell’archiviazione.
Ma i dubbi espressi dall’A. sono tanti: quale preparazione deve avere il
lettore perché una reale interattività sia pensabile? Quale divario si creerà
tra storiografia scientifica e storiografia divulgativa? Come ‘cumulare’
ricerche che nascono da ipotesi e ‘ingegnerie’ individuali profondamente
diverse? "Perderanno davvero" le fonti il loro carattere esemplificativo oppure
-secondo noi e come a suo tempo suggeriva Tommaso Detti (Storia e
computer opera cit., p.97) -non sarà comunque necessario scegliere un
criterio di campionatura, quale scelta metodologica piuttosto che opzione
riduttiva?
Aggiungiamo che probabilmente andrebbe approfondito il
discorso circa la differenza tra ipertestualità
debole della scrittura storiografica, vale a dire una presentazione più
ampia dello ‘sfondo’ (sistemi di fonti e loro relazioni) rispetto alla
‘figura’ (il percorso interpretativo dell’autore), che resta in
ogni caso la chiave di lettura dominante dell’insieme e
ipertestualità forte, vale a dire scrittura storica
ipertestuale, che rinuncia programmaticamente a segnare un percorso
privilegiato, puntando su di una particolare qualità (quale? quod est
disputandum) della molteplicità delle ‘n’ relazioni ed interpretazioni
possibili.
E’ su questo punto che si gioca veramente un cambiamento qualitativo sia
nella produzione sia nella ricezione, e si ripropone irrisolto l’interrogativo
di P. Ortoleva: “Può il discorso storico rinunciare alla sequenzialità?... Sono
gli storici preparati e disponibili ad abbandonare l’idea di non concludere il
loro discorso?” (Storia e computer cit., p.81-82). L’ipotesi di
Ragazzini non rinuncia ad un “itinerario prestabilito di
conoscenza” (p.16), il che rende possibile una maggiore
“compartecipazione cognitiva” dell’utente, ma non determina –
sostanzialmente – un diverso modo di ricezione e di fruizione.
Oltre a questi temi, che ci sembrano cruciali, ma ancora largamente irrisolti
e soprattutto poco sperimentati, Ragazzini fa anche il punto su altri problemi
già da tempo presenti alla nostra attenzione e più legati all’impatto
dell’informatica sulle fonti: nuove abilità richieste di archiviazione da una
parte, di ricerca, lettura e manipolazione dall’altra; difficoltà di
organizzazione dei dati e di indicizzazzione semantica; software di
elaborazione e information retrieval spesso proprietari, soggetti a
continui aggiornamenti, poco o nulla garanti dell’interoperabilità;
stabilità ed autenticità non garantite.
Su di un cambiamento già in atto nell’uso delle fonti disponibili e nelle
modalità di ricerca e di scrittura storiografica esprime scetticismo sin
dall’apertura e poi in varie riprese il saggio successivo di Serge Noiret La
storia contemporanea nella rete del “villaggio globale”, uno scetticismo
che nasce anche dallo stato attuale della sitografia di interesse storico oggi
disponibile sul web, di cui egli è osservatore privilegiato in quanto History
Information Specialist all’Istituto Universitario Europeo di Firenze.
Le risorse di interesse storico in rete (siano esse storiografiche,
costituite da fonti primarie – convenzionali o non convenzionali – da
documentazione secondaria o da luoghi di dibattito) hanno problemi
notevoli in rapporto all’affidabilità, alla certificazione di autenticità, alla
scientificità, per cui è indispensabile attivare progetti per
la creazione di aree selezionate e qualificate di ricerca
costituite da portali specializzati controllati da esperti. L’A.
fornisce informazione su alcune iniziative straniere al riguardo (OCLC Netfirst, progetto Scirus, VLIB France, ecc.), focalizzando poi
l’attenzione sul WWW-VL History Project, un progetto di selezione e
segnalazione dei migliori siti storiografici, di cui è coordinatore.
Ma un problema centrale è anche quello delle competenze singole di
ricerca e valutazione di tali risorse, da esplorare con l’approccio del
“positivismo empirico e critico”. Indispensabile appare un impegno da
parte degli addetti ai lavori per la segnalazione di filtri critici e
per un incremento delle abilità di navigazione. Un contributo dell’A. al
riguardo è la classificazione delle tipologie di fonti ed una
serie di utili indicazioni su strumenti di ricerca in rete.
Al problema delle fonti, oggetto di “stratificazione
organica” o di archiviazione più o meno sofisticata, tornano i due
ultimi saggi, da punti di vista relativamente nuovi: quello di una fonte non
convenzionale, com'è la fotografia, e di una fonte con caratteristiche del
tutto inedite, come lo stesso web.
Monica Gallai e Luigi Tomassini con La fotografia di documentazione
storica in Internet si pongono – nell’ambito della fotografia digitalizzata
– il problema del rapporto tra quantità, selezione e reperibilità, già indicato
da Ragazzini come un problema chiave.
Che cosa significa poter disporre, in un futuro sempre più prossimo, di
un’enorme rete archivistica di fotografie, prima difficilmente raggiungibili,
senza chiavi di accesso semantiche ai contenuti ed alle informazioni di
contesto, fondamentali perché una fonte restituisca tutte le reti di
relazioni che le danno significato? Il problema della
catalogazione finalizzata al reperimento e all’uso della foto
come documento è dunque centrale e relativamente nuovo in un settore in
cui, da una parte si sono sperimentati trattamenti biblioteconomici-archivistici
empirici e fortemente differenziati, dall’altra si è avuta la forte tendenza a
considerare la foto opera autoreferenziale legata prevalentemente alla
personalità di un autore.
Gli AA. fanno un’utilissima panoramica sugli standard di
rappresentazione e di descrizione, stranieri ed italiani, focalizzando
poi l’attenzione per l’Italia sul manuale Benassati (1990) a
cui fa riferimento una specifica funzione del software
Sebina, nonché sulla scheda F dell’ICCD del 1999 (269 voci di
catalogazione), non ancora collegata ad alcuna applicazione informatica ed
ancora in corso di elaborazione. Che il meglio rischi di essere nemico del
bene per un’impresa titanica quale quella immaginata con la scheda
F - sia pure considerando i soli campi obbligatori previsti, ben 41
per un primo livello inventariale! - è un interrogativo su cui gli AA.
glissano.
Ampia informazione viene data sui livelli standard di digitalizzazione, su
differenti modelli italiani e stranieri di catalogazione in rete, sulla prassi
diffusa della catalogazione a due livelli: del ‘francobollo’ e dell’originale;
sulle differenze di catalogazione tra siti pubblici e privati, sulla tipologia
dei siti che offrono accesso più o meno strutturato a patrimoni fotografici.
Ovunque viene rilevato il problema della scarsa
standardizzazione e della scarsa presenza di informazione di
contesto.
Altro problema rilevato – nell’ambito di un’ambiguità non del tutto risolta
da parte degli AA. tra fotografia come fonte per la storia e storia della
fotografia – è quello dell’ancora limitato uso di questo tipo di
documento rispetto alla nuova ricca disponibilità, di cui vengono
offerti alcuni esempi con i grandi progetti di digitalizzazione a partire
dagli anni ’90 (Americam Memory, NARA, Gallica). E’ unicamente l’uso
“evocativo ed illustrativo” che è aumentato; parzialmente sperimentato, per
grandi serie, è lo studio delle foto come mezzo di comunicazione sociale,
ma la fotografia come documento con valore “euristico” all’interno di un
percorso storiografico è ancora assente. La carenza di studi teorici
nel settore viene considerata una causa determinante del fenomeno.
Il saggio di Stefano Vitali Una memoria fragile presenta una
tematica nuova ed interessante: il mega-archivio web come fonte in se
stessa per il lavoro dello storico, al di là delle imprese di
riproduzione e conservazione di fonti tradizionali. Questa nuova fonte, fatta
non soltanto di testi ed immagini, ma anche di forum, blog, chat, servizi
all’utenza, relazioni complesse tra siti e pagine e livelli diversi più e meno
accessibili (web superficiale e web profondo), è quanto di più fragile si possa
immaginare, soggetta com’è ad una instabilità costituzionale dei dati e delle
relazioni. Come dare a questo patrimonio in movimento una qualche
stabilità che consenta allo storico di ricostruire lo stato della
rete in un determinato periodo e in rapporto ad un determinato argomento?
(Si pensi ad esempio alla documentazione che si è moltiplicata in rete in
rapporto ad un evento come quello dell’11 settembre a New York ed al suo
intrinseco interesse).
Le difficoltà sono enormi, di natura pratica e concettuale, il dibattito su
questo specifico tema è appena iniziato e Vitali ne è ben consapevole. L’attuale
situazione, caratterizzata da ampio e necessario sperimentalismo, vede lo
svilupparsi di alcuni promettenti tentativi. L’A. ne dà ragione con
ricchezza di informazione e di rinvii: Internet Archive, September 11 Archive,
gli Archivi istituzionali svedesi, l’australiano Pandora, i prototipi della
BNF.
La storia di questi tentativi segna già il passaggio da una
logica di “sedimentazione organica” ad una di “catalogazione”, anche se
tipologie di catalogazione bibliografica – osserva Vitali – hanno la meglio per
ora su quelle archivistiche, da lui ritenute molto più opportune per le
caratteristiche di Internet. Senza una ferrea logica di selezione e
scarto, connaturata agli archivi, non è infatti neppur pensabile di
affrontare realisticamente il problema del salvataggio della ‘memoria’ web. In
quest’ottica la collaborazione diretta dei gestori di
siti viene realisticamente chiamata in causa: sulla base di linee guida
standard dovrebbero essere gli stessi responsabili dei siti ad
attivare strategie organiche di sedimentazione, scarto, selezione,
versamento, capaci pure di recuperare il web profondo e le transazioni con
gli utenti, ma soprattutto – fondamentali per la documentazione storica – i
contesti di creazione e gestione dei siti. Operazione che, ci si
consenta un riferimento al nostro Istituto, Idire ha appena inaugurato,
proprio nell’ottica indicata da Vitali.
Infine, pur nell’ambito di un deciso apprezzamento per l’interessante e
completa panoramica offerta da questo lavoro, una piccola nota critica: la
densità di temi e problemi che si interrelano in saggi molto concentrati non
rende agevole la lettura. Più di una volta la lettrice si è chiesta perché gli
autori – tutti ragionando della Rete – non abbiano pensato al web come
al luogo ideale di scrittura per questo libro ‘reticolare’. Ciò avrebbe
consentito agevolmente – tra l’altro – di dare accesso ad una bibliografia e
sitografia di cui si sente la mancanza, particolarmente per il saggio più
generale.
"La storiografia digitale" di Dario Ragazzini, Serge Noiret, Monica Gallai,
Luigi Tomassini, Stefano Vitali, a cura di Dario Ragazzini, Torino UTET
Libreria, 2004, pp. 131.
Editing a cura dell'Ufficio Comunicazione Indire
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